dal monumento a Cristoforo Colombo nella cattedrale di Siviglia
mercoledì 25 dicembre 2013
domenica 15 dicembre 2013
lunedì 9 dicembre 2013
venerdì 6 dicembre 2013
Mandela, il guerrigliero che si fece icona di pace
L’ avventura di
Mandela, il guerrigliero che si fece icona di pace
Dal villaggio nel Traskei alla militanza nell'Anc,
giovane avvocato e poi militante della lotta armata. Gli amori, le mogli, la
tragedia dei figli strappati dall'Aids. La lunga prigionia che lo rafforza al
punto da diventare la leva che scardina l'apartheid. Gli anni della gloria, dal
Nobel alla presidenza. Il nuovo impegno nella lotta al virus e la scelta di
ritirarsi dalla scena pubblica, che fino all'ultimo non ha appannato la sua
popolarità universale. 95 anni vissuti dalla parte della libertà
di DANIELE MASTROGIACOMO
05 dicembre 2013
Nelson Mandela (ansa)PREMIO NOBEL per la Pace, condannato all'ergastolo, rinchiuso per 27 anni
in un durissimo carcere, protagonista indiscusso della lotta contro
l'apartheid. Con Nelson Mandela il mondo perde il simbolo universale della
lotta per la giustizia e la libertà. Mai, in secoli di storia, c'è stato un
altro uomo o un'altra donna che hanno speso gran parte della vita per
sconfiggere le discriminazioni razziali e trasformare il loro paese, il
Sudafrica, il Gigante africano, in una moderna democrazia. In queste ore
l'intero pianeta piange la scomparsa di una figura mitica, allegra, spiritosa
ma anche ossessivamente legata ad una disciplina che gli ha consentito di
superare indenne dieci arresti, due processi e oltre un quarto di secolo di
carcere durissimo nell'isola-prigione di Robben Island.
Figlio di Gadla Henry Mphakamyiswa, capo della tribù Thembu, Rolihlahla Dalibhunga nasce il 18 luglio del 1918 nel piccolo villaggio di Qunu, nella regione del Traskei, forse una della più rigogliose del sud-est del paese. Chiamato "Madiba", titolo onorifico che gli viene attribuito dagli anziani della sua tribù e come tuttora viene chiamato dal suo popolo, Rolihlahla perde il padre quando ha solo 9 anni. Viene mandato a studiare in una scuola presbiteriana. Saranno proprio i religiosi a cambiargli il nome in Nelson Rolihlahla Mandela, nome che manterrà per il resto dei suoi giorni. Come la maggior parte degli uomini di colore, relegati ai margini di una società fondata sul razzismo, crede nell'importanza della scuola e dell'educazione.
E' convinto che studiando e arricchendosi di quella cultura riservata all'epoca solo ai bianchi avrà qualche possibilità di superare un destino già tracciato per milioni di neri. Supera gli esami, ottiene i suoi diplomi; poi, a 22 anni, giovane e pieno di rabbia, compie una scelta che lo segnerà per il resto della vita ma che lo proietterà verso la più grande impresa della sua esistenza: la lotta di liberazione dal regime dell'apartheid.
Il suo clan decide che per lui è venuto il momento di sposarsi e gli sceglie, come era nella tradizione, anche la moglie. Mandela ci pensa una notte intera ma alla fine preferisce fuggire e quindi rompere con la sua grande e influente famiglia. Con il cugino raggiunge Johannesburg. Continua gli studi, s'iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, partecipa alle prime sommosse universitarie. Nel 1942, due anni dopo aver lasciato il suo villaggio, aderisce all'African national congress (Anc). E' molto attivo, ha delle intuizioni politiche brillanti, suggerisce nuove tattiche di lotta. Si fa notare e viene notato. Con i suoi due amici inseparabili, Walter Sisulu e Oliver Tambo, che lo seguiranno in mille avventure, fonda la Youth league, una lega giovanile vicina alle posizioni dell'Anc.
Nel 1944 sposa la sua prima moglie (ne avrà tre): si chiama Evelyn Ntoko Mase. Resteranno insieme 13 anni. Anni felici e di battaglie comuni. Poi divorziano. Il 1948 è un anno particolare per il Sudafrica. Il partito nazionale afrikaner, partito di destra e razzista formato da soli bianchi nati e cresciuti nel paese, trionfa alle elezioni. Mandela è già rientrato tra le fila dell'Anc: lavora giorno e notte, si distingue ancora nel partito, sale i gradini nelle diverse strutture, raggiunge il vertice dell'Assemblea popolare.
Nel 1955 è stufo di vedere attorno a sé tanta ingiustizia. E' diventato un avvocato, vuole fare qualcosa per la sua gente. Con l'inseparabile Tambo apre uno studio legale e fornisce, in modo gratuito, l'assistenza alle vittime della repressione del regime bianco. Un anno dopo, il 5 dicembre, viene arrestato assieme ad altri 150 compagni dell'Anc con l'accusa di tradimento. Il processo dura sei anni ma al termine saranno tutti assolti. Nel 1958 sposa Winnie Madikizela dalla quale avrà quattro figli.
Anni contrastanti: di liti violente e di passioni felici, nonostante il regime dell'apartheid lo costringa ad una vita di allarme e di continui arresti. L'Aids, che all'epoca non era stato ancora scoperto, gli porta via tre figli. E' un durissimo colpo per il futuro padre della patria. Lo segnerà per il resto della vita: fino all'ultimo giorno si batterà per sconfiggere la diffusione dell'Hiv che in Sudafrica si è trasformato in un vero flagello. Ammetterà anche di averlo sottovalutato e di non aver agito con sufficiente energia quando fu in condizioni di farlo. Nel 1960, l'esercito sudafricano reprime con la forza una manifestazione di protesta. I soldati sparano ad altezza d'uomo: 69 persone vengono uccise a Sharpeville.
E' il momento più cupo nella storia del Sudafrica. L'Anc è messo al bando, Nelson Mandela sceglie la lotta armata. Vive tre anni da clandestino, tra attentati, sommosse, altre rivolte, altri morti. Nel luglio del 1963 è nuovamente arrestato. E' accusato di tradimento. Il processo dura nove mesi e viene condannato all'ergastolo. Madiba ammetterà gli attentati, ma negherà di aver organizzato l'invasione del Sudafrica da parte di alcuni stati confinanti. Rivendica il ruolo di combattente per la libertà, rifiuta quello di traditore della sua terra. E' trasferito nell'isola di Robben Island, di fronte a Città del Capo. Ci resterà per 27 anni. Senza mai perdere quella lucidità politica che lo porterà a coronare il grande sogno. Sosterrà i compagni finiti in galera, li aiuterà nei momenti di sconforto, imporrà gli esercizi fisici alla mattina e interi pomeriggi di studi. Chiederà libri, penne e quaderni, darà lezioni di grammatica, di storia, di lingua. Chiuso nella sua cella, con una visita al mese, osservato a vista, spesso provocato, porterà avanti la sua battaglia contro l'apartheid.
Ma sarà il resto del mondo, scosso dall'atteggiamento di quest'uomo fermo nei suoi principi e insieme tollerante nel confronto, a creare le condizioni per la sua liberazione. La solidarietà è immensa. Il Sudafrica è stretto nella morsa delle sanzioni e dell'embargo. Il regime segregazionista del presidente Botha è in affanno. Nelson Mandela prigioniero è una spina nel fianco. Nell'inverno del 1985 gli viene offerta la libertà condizionata. A patto che rinneghi la lotta armata. Mandela rifiuta. Resterà in carcere fino all'11 febbraio del 1990. E' una data storica, una domenica: l'ormai icona della libertà e della giustizia varca il portone di Robben Island, percorre una lunga strada sterrata bianca, sbarca a Città del Capo, raggiunge il palazzo del Comune e davanti ad un'immensa folla annuncia la fine del regime razzista. Lo fa insieme a Frederick de Klerk, l'ultimo presidente del Sudafrica segregazionista, l'uomo che lo ha fatto liberare. Una scelta maturata nel tempo. Suggerita, sostengono i più informati, dai preziosi consigli della sua nuova compagna.
Davanti alle crisi irreversibile del paese, fu questa donna ad avvertire l'uomo che guidava il Sudafrica: "Sei vuoi essere ricordato nella storia è venuto il momento del grande passo". De Klerk firma il decreto di scarcerazione e il tempo gli assegna, insieme all'ex prigioniero, il suo posto tra i Grandi: ottengono entrambi, nel 1993, il Premio Nobel per la pace. Dal 1991 al 1994, Nelson Mandela è presidente dell'Anc. Corre per le presidenziali del paese. Le vince con un trionfo. Sarà il primo Capo di Stato sudafricano di colore e nominerà come suo vice proprio Frederick de Klerk. E' il segno più tangibile di quel processo di riaggregazione e di pacificazione che scandirà la vita politica del nuovo Mandela. Alla cerimonia invita il capo dei suoi carcerieri.
Nel 1996, tra molte polemiche, divorzia da Winnie. Due anni dopo, ormai ottantenne, sposa Graca Machel, vedova di Samora Machel, presidente del Mozambico, morto in un misterioso incidente aereo, suo grande amico durante la lotta all'apartheid. Viaggia nel mondo. Vede ancora i suoi amici di un tempo, i "combattenti in armi". Castro, Gheddafi. Ha la forza di apparire a concerti oceanici di musica. A Londra. Di ricevere decine di premi e onoreficienze. Da Firenze e a New Delhi dove è l'unico, oltre a Madre Teresa di Calcutta, ad essere insignito di un premio destinato solo ai grandi dell'India. Continua ad accogliere leader mondiali, come Blair e Bush. Per tutti ha una battuta, con tutti ostenta il suo humor che non lo ha mai abbandonato. Decine di paesi gli dedicano parchi e piazze. Il suo nome campeggia in molti angoli, piazze, vie, luoghi anche sconosciuti, del pianeta.
Stanco ma soddisfatto, nel giugno del 2004 pensa che sia arrivato il momento di ritirarsi. Il tempo, il carcere, le infinite battaglie lo hanno logorato. Da lontano, fuori dalla mischia politica che si fa sempre più serrata, media nei contrasti tra le correnti dell'Anc. Vuole finire i suoi giorni nel paese che ha liberato. Ma vuole anche lasciare inalterati i principi che hanno proiettato il Sudafrica verso il progresso e la democrazia. Lo ascoltano tutti e tutti lo rispettano. Non è solo un'icona immortale. E' un uomo. Conserva la saggezza, l'equilibrio, la disciplina, la tenacia, l'ostinazione di sempre. Sono le armi a cui si aggrappa. Che vuole trasferire al suo popolo, oggi finalmente libero. Di autodeterminarsi. Di scegliere. Senza più distinzioni di razze, di religione. Ma sa anche che la strada è ancora lunga. Ha combattuto per oltre 90 anni. E' molto debole, il fisico lo sta abbandonando. Ha nostalgia del suo villaggio, delle sue origini, del suo clan. Spiega: "Voglio dedicarmi alla mia famiglia". Lo farà con l'energia e la lucidità di sempre. Sveglia alle 4,30. Ginnastica per un'ora. Lettura dei giornali. Poi il rito della colazione: porridge, latte e cornflakes. Come sempre. Ogni giorno, da un secolo.
Davanti al giardino in fiore che avvolge la sua casa, sempre curata, sempre ridipinta, di Hougton, quartiere bene di Johannesburg, trascorre le sue ultime giornate. Circondato dai nipoti, dagli amici, dai giovani che ogni mattina risalgono il viale alberato della 12a street per ascoltare la storia di "Madiba". Una storia unica. Una storia di libertà e di giustizia
Figlio di Gadla Henry Mphakamyiswa, capo della tribù Thembu, Rolihlahla Dalibhunga nasce il 18 luglio del 1918 nel piccolo villaggio di Qunu, nella regione del Traskei, forse una della più rigogliose del sud-est del paese. Chiamato "Madiba", titolo onorifico che gli viene attribuito dagli anziani della sua tribù e come tuttora viene chiamato dal suo popolo, Rolihlahla perde il padre quando ha solo 9 anni. Viene mandato a studiare in una scuola presbiteriana. Saranno proprio i religiosi a cambiargli il nome in Nelson Rolihlahla Mandela, nome che manterrà per il resto dei suoi giorni. Come la maggior parte degli uomini di colore, relegati ai margini di una società fondata sul razzismo, crede nell'importanza della scuola e dell'educazione.
E' convinto che studiando e arricchendosi di quella cultura riservata all'epoca solo ai bianchi avrà qualche possibilità di superare un destino già tracciato per milioni di neri. Supera gli esami, ottiene i suoi diplomi; poi, a 22 anni, giovane e pieno di rabbia, compie una scelta che lo segnerà per il resto della vita ma che lo proietterà verso la più grande impresa della sua esistenza: la lotta di liberazione dal regime dell'apartheid.
Il suo clan decide che per lui è venuto il momento di sposarsi e gli sceglie, come era nella tradizione, anche la moglie. Mandela ci pensa una notte intera ma alla fine preferisce fuggire e quindi rompere con la sua grande e influente famiglia. Con il cugino raggiunge Johannesburg. Continua gli studi, s'iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, partecipa alle prime sommosse universitarie. Nel 1942, due anni dopo aver lasciato il suo villaggio, aderisce all'African national congress (Anc). E' molto attivo, ha delle intuizioni politiche brillanti, suggerisce nuove tattiche di lotta. Si fa notare e viene notato. Con i suoi due amici inseparabili, Walter Sisulu e Oliver Tambo, che lo seguiranno in mille avventure, fonda la Youth league, una lega giovanile vicina alle posizioni dell'Anc.
Nel 1944 sposa la sua prima moglie (ne avrà tre): si chiama Evelyn Ntoko Mase. Resteranno insieme 13 anni. Anni felici e di battaglie comuni. Poi divorziano. Il 1948 è un anno particolare per il Sudafrica. Il partito nazionale afrikaner, partito di destra e razzista formato da soli bianchi nati e cresciuti nel paese, trionfa alle elezioni. Mandela è già rientrato tra le fila dell'Anc: lavora giorno e notte, si distingue ancora nel partito, sale i gradini nelle diverse strutture, raggiunge il vertice dell'Assemblea popolare.
Nel 1955 è stufo di vedere attorno a sé tanta ingiustizia. E' diventato un avvocato, vuole fare qualcosa per la sua gente. Con l'inseparabile Tambo apre uno studio legale e fornisce, in modo gratuito, l'assistenza alle vittime della repressione del regime bianco. Un anno dopo, il 5 dicembre, viene arrestato assieme ad altri 150 compagni dell'Anc con l'accusa di tradimento. Il processo dura sei anni ma al termine saranno tutti assolti. Nel 1958 sposa Winnie Madikizela dalla quale avrà quattro figli.
Anni contrastanti: di liti violente e di passioni felici, nonostante il regime dell'apartheid lo costringa ad una vita di allarme e di continui arresti. L'Aids, che all'epoca non era stato ancora scoperto, gli porta via tre figli. E' un durissimo colpo per il futuro padre della patria. Lo segnerà per il resto della vita: fino all'ultimo giorno si batterà per sconfiggere la diffusione dell'Hiv che in Sudafrica si è trasformato in un vero flagello. Ammetterà anche di averlo sottovalutato e di non aver agito con sufficiente energia quando fu in condizioni di farlo. Nel 1960, l'esercito sudafricano reprime con la forza una manifestazione di protesta. I soldati sparano ad altezza d'uomo: 69 persone vengono uccise a Sharpeville.
E' il momento più cupo nella storia del Sudafrica. L'Anc è messo al bando, Nelson Mandela sceglie la lotta armata. Vive tre anni da clandestino, tra attentati, sommosse, altre rivolte, altri morti. Nel luglio del 1963 è nuovamente arrestato. E' accusato di tradimento. Il processo dura nove mesi e viene condannato all'ergastolo. Madiba ammetterà gli attentati, ma negherà di aver organizzato l'invasione del Sudafrica da parte di alcuni stati confinanti. Rivendica il ruolo di combattente per la libertà, rifiuta quello di traditore della sua terra. E' trasferito nell'isola di Robben Island, di fronte a Città del Capo. Ci resterà per 27 anni. Senza mai perdere quella lucidità politica che lo porterà a coronare il grande sogno. Sosterrà i compagni finiti in galera, li aiuterà nei momenti di sconforto, imporrà gli esercizi fisici alla mattina e interi pomeriggi di studi. Chiederà libri, penne e quaderni, darà lezioni di grammatica, di storia, di lingua. Chiuso nella sua cella, con una visita al mese, osservato a vista, spesso provocato, porterà avanti la sua battaglia contro l'apartheid.
Ma sarà il resto del mondo, scosso dall'atteggiamento di quest'uomo fermo nei suoi principi e insieme tollerante nel confronto, a creare le condizioni per la sua liberazione. La solidarietà è immensa. Il Sudafrica è stretto nella morsa delle sanzioni e dell'embargo. Il regime segregazionista del presidente Botha è in affanno. Nelson Mandela prigioniero è una spina nel fianco. Nell'inverno del 1985 gli viene offerta la libertà condizionata. A patto che rinneghi la lotta armata. Mandela rifiuta. Resterà in carcere fino all'11 febbraio del 1990. E' una data storica, una domenica: l'ormai icona della libertà e della giustizia varca il portone di Robben Island, percorre una lunga strada sterrata bianca, sbarca a Città del Capo, raggiunge il palazzo del Comune e davanti ad un'immensa folla annuncia la fine del regime razzista. Lo fa insieme a Frederick de Klerk, l'ultimo presidente del Sudafrica segregazionista, l'uomo che lo ha fatto liberare. Una scelta maturata nel tempo. Suggerita, sostengono i più informati, dai preziosi consigli della sua nuova compagna.
Davanti alle crisi irreversibile del paese, fu questa donna ad avvertire l'uomo che guidava il Sudafrica: "Sei vuoi essere ricordato nella storia è venuto il momento del grande passo". De Klerk firma il decreto di scarcerazione e il tempo gli assegna, insieme all'ex prigioniero, il suo posto tra i Grandi: ottengono entrambi, nel 1993, il Premio Nobel per la pace. Dal 1991 al 1994, Nelson Mandela è presidente dell'Anc. Corre per le presidenziali del paese. Le vince con un trionfo. Sarà il primo Capo di Stato sudafricano di colore e nominerà come suo vice proprio Frederick de Klerk. E' il segno più tangibile di quel processo di riaggregazione e di pacificazione che scandirà la vita politica del nuovo Mandela. Alla cerimonia invita il capo dei suoi carcerieri.
Nel 1996, tra molte polemiche, divorzia da Winnie. Due anni dopo, ormai ottantenne, sposa Graca Machel, vedova di Samora Machel, presidente del Mozambico, morto in un misterioso incidente aereo, suo grande amico durante la lotta all'apartheid. Viaggia nel mondo. Vede ancora i suoi amici di un tempo, i "combattenti in armi". Castro, Gheddafi. Ha la forza di apparire a concerti oceanici di musica. A Londra. Di ricevere decine di premi e onoreficienze. Da Firenze e a New Delhi dove è l'unico, oltre a Madre Teresa di Calcutta, ad essere insignito di un premio destinato solo ai grandi dell'India. Continua ad accogliere leader mondiali, come Blair e Bush. Per tutti ha una battuta, con tutti ostenta il suo humor che non lo ha mai abbandonato. Decine di paesi gli dedicano parchi e piazze. Il suo nome campeggia in molti angoli, piazze, vie, luoghi anche sconosciuti, del pianeta.
Stanco ma soddisfatto, nel giugno del 2004 pensa che sia arrivato il momento di ritirarsi. Il tempo, il carcere, le infinite battaglie lo hanno logorato. Da lontano, fuori dalla mischia politica che si fa sempre più serrata, media nei contrasti tra le correnti dell'Anc. Vuole finire i suoi giorni nel paese che ha liberato. Ma vuole anche lasciare inalterati i principi che hanno proiettato il Sudafrica verso il progresso e la democrazia. Lo ascoltano tutti e tutti lo rispettano. Non è solo un'icona immortale. E' un uomo. Conserva la saggezza, l'equilibrio, la disciplina, la tenacia, l'ostinazione di sempre. Sono le armi a cui si aggrappa. Che vuole trasferire al suo popolo, oggi finalmente libero. Di autodeterminarsi. Di scegliere. Senza più distinzioni di razze, di religione. Ma sa anche che la strada è ancora lunga. Ha combattuto per oltre 90 anni. E' molto debole, il fisico lo sta abbandonando. Ha nostalgia del suo villaggio, delle sue origini, del suo clan. Spiega: "Voglio dedicarmi alla mia famiglia". Lo farà con l'energia e la lucidità di sempre. Sveglia alle 4,30. Ginnastica per un'ora. Lettura dei giornali. Poi il rito della colazione: porridge, latte e cornflakes. Come sempre. Ogni giorno, da un secolo.
Davanti al giardino in fiore che avvolge la sua casa, sempre curata, sempre ridipinta, di Hougton, quartiere bene di Johannesburg, trascorre le sue ultime giornate. Circondato dai nipoti, dagli amici, dai giovani che ogni mattina risalgono il viale alberato della 12a street per ascoltare la storia di "Madiba". Una storia unica. Una storia di libertà e di giustizia
lunedì 2 dicembre 2013
La prima classifica
1.Paris p.10
2.Gatto e Paracchini p.9
4.Cerutti p.8
5.Angelino e Ossola p.2
7.Anitei, Perazzi,
Tomasina p.1
ultimi con 0 punti:
Bracuto, Brivio,Manavella, Mazzotti, Omobono, Perito ,Piolini, Verzeni, Zucccotti
2.Gatto e Paracchini p.9
4.Cerutti p.8
5.Angelino e Ossola p.2
7.Anitei, Perazzi,
Tomasina p.1
ultimi con 0 punti:
Bracuto, Brivio,Manavella, Mazzotti, Omobono, Perito ,Piolini, Verzeni, Zucccotti
sabato 30 novembre 2013
Divagazioni culturali
1) School of Hard Rock
Il tempio della musica rock si apre al mondo della scuola. Anche per l’anno scolastico 2013/2014 gli Hard Rock Cafe italiani di Roma e Firenze promuovono un originale progetto culturale dedicato a tutti i ragazzi delle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado, arricchito da visite guidate, sessioni didattiche e in alcuni casi veri e propri “incontri speciali” con protagonisti del mondo della musica e del lavoro.
Il rock, con tutte le sue implicazioni sociali e culturali, rappresenta da sempre un tema di grande interesse per gli adolescenti. L’obiettivo del progetto è quindi quello di favorire il loro naturale interesse, guidando i ragazzi verso un accostamento più equilibrato a questo genere musicale. Nel contempo il progetto didattico di “School of Hard Rock” va incontro ad un’esigenza particolarmente sentita nel mondo della scuola: la ricerca di momenti comuni che siano non solo formativi, ma anche originali, divertenti e aggreganti.
2) I contenuti del progetto
La prima parte degli incontri sarà interamente dedicata alla storia del marchio “Hard Rock Cafe” e al suo successo planetario: dagli esordi dei primi anni ’70 – quando Peter Morton e Isaac Tigrett scelsero di dedicare al rock il ristorante americano che si apprestavano ad inaugurare nel centro di Londra – fino alle dimensioni attuali, con 164 ristoranti in 53 paesi e con la più grande collezione di memorabilia: oltre 73.000 pezzi dal valore inestimabile, tutti legati alla storia del rock dagli anni ‘50 ai giorni nostri. Particolare attenzione verrà riservata ai valori sui quali Hard Rock Cafe ha posato le sue fondamenta e che ancora oggi guidano l’azienda. Valori riassunti nei quattro motti: “Love All Serve All”, “Take Time To Be Kind”, “Save The Planet” e “All Is One”.
La seconda parte degli incontri permetterà invece di approfondire uno dei seguenti macro-argomenti, che i docenti potranno scegliere in fase di prenotazione:
- “Storia della Musica Rock”, dedicato agli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, con possibilità di approfondimenti su singoli periodi;
- “Marketing” & “Marketing del Turismo”, dedicato agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado ad indirizzo tecnico;
- “Food & Beverage Management”, per gli studenti degli istituti alberghieri.
- “Be a Beatle”, per gli studenti delle scuole primarie.
Il programma è completato da aneddoti sulla vita dei più celebri musicisti rock, da video musicali degli artisti e da giochi a squadre con premio finale personalizzato “Hard Rock Cafe”. Gli incontri, della durata di tre ore circa, si concluderanno tutti con un pranzo tipico della cucina americana a menu fisso. Il pranzo è l’unico costo che verrà chiesto alle classi di sostenere.
domenica 24 novembre 2013
Juan Ginés de Sepúlveda Non uomini ma “omuncoli”
"Confronta ora le doti di prudenza, ingegno, magnanimità, temperanza, umanità, religione di questi uomini [gli spagnoli] con quelle di quegli omuncoli, nei quali a stento potrai riscontrare qualche traccia di umanità, e che non solo sono totalmente privi di cultura, ma non conoscono l’uso delle lettere, non conservano alcun documento sulla loro storia […] E se, a proposito delle loro virtù, vuoi sapere della loro temperanza e mansuetudine, che cosa potresti aspettarti da uomini abbandonati ad ogni genere di intemperanza e nefanda libidine, molti dei quali si nutrivano di carne umana? Non credere che prima della venuta dei cristiani vivessero in ozio, nello stato di pace dell’età di Saturno cantata dai poeti, ché al contrario si facevano guerra quasi in continuazione, con tanta rabbia da non considerarsi vittoriosi se non riuscivano a saziare con le carni dei loro nemici la loro fame portentosa; crudeltà che in loro è tanto più straordinaria quanto più distano dalla invincibile fierezza degli Sciiti anch’essi mangiatori di corpi umani: infatti sono così ignavi e timidi che a mala pena possono sopportare la presenza ostile dei nostri, e spesso sono dispersi a migliaia e fuggono come donnette, sbaragliati da un numero così esiguo di spagnoli che non arriva neppure al centinaio. [...] Così Cortés, all’inizio, per molti giorni tenne oppressa e terrorizzata, con l’aiuto di un piccolo numero di spagnoli e di pochi indigeni, una immensa moltitudine, che dava l’impressione di mancare non soltanto di abilità e prudenza, ma anche di senso comune. Non sarebbe stato possibile esibire una prova più decisiva o convincente per dimostrare che alcuni uomini sono superiori ad altri per ingegno, abilità, fortezza d’animo e virtù, e che i secondi sono servi per natura. Il fatto poi che alcuni di loro sembrino avere dell’ingegno, per via di certe opere di costruzione, non è prova di una più umana perizia, dal momento che vediamo certi animaletti, come le api e i ragni, costruire opere che nessuna attività umana saprebbe imitare. Per quanto concerne la vita sociale degli abitanti della Nuova Spagna e della provincia di Messico, già si è detto che sono considerati i più civili di tutti, e loro stessi vantano delle loro istituzioni pubbliche, quasi fosse non piccola prova della loro industria e civiltà il fatto di avere città edificate razionalmente e re nominati non secondo un diritto ereditario e basato sull’età, ma per suffragio [voto] popolare, e di esercitare il commercio come i popoli civilizzati. Pensa quanto si sbagliano costoro, e quanto la mia opinione dista dalla loro: giacché secondo me la maggior prova della loro rozzezza, barbarie e innata servitù è costituita proprio dalle loro istituzioni pubbliche, che sono per la maggior parte servili e barbare. Infatti che abbiano case e alcuni modi razionali vita in comune e i commerci ai quali induce la necessità naturale, che cosa altro prova, se non che costoro non sono orsi o scimmie del tutto prive di ragione?
Ho parlato del carattere e dei costumi di questi barbari; che dire ora dell’empia religione e nefandi sacrifici di tale gente, che venerando il demonio come Dio, non trova di meglio per placarlo che offrirgli in sacrificio cuori umani? Questa sarebbe una cosa buona, se per “cuori” si intendessero le anime immacolate e pie degli uomini; ma loro riferivano questa cessione non allo spirito che vivifica (per usare le parole di san Paolo) ma alla lettera che uccide, e ne davano una interpretazione stolta e barbara, pensando che si dovessero sacrificare vittime umane: e aprendo i petti degli uomini ne strappavano i cuori e li offrivano sulle are nefande, credendo così di aver fatto un sacrificio secondo il modo stabilito e di aver placato gli dei. Essi stessi poi si cibavano delle carni degli uomini immolati. Questi crimini, che superano ogni umana perversità, sono considerati dai filosofi tra le più feroci e abominevoli scelleratezze. E quanto al fatto che alcune di quelle popolazioni, secondo quanto si dice, manchino completamente di ogni religione e di ogni conoscenza di che altro è questo se non negare l’esistenza di Dio e vivere come le bestie? Non vedo cosa si potrebbe escogitare di più grave, di più turpe, di più alieno alla natura umana. Il genere di idolatria più vergognoso è quello di quanti venerano come dio il ventre e le parti più turpi del corpo, considerano religione e virtù i piaceri carnali, e come porci tengono sempre lo sguardo fisso a terra, quali non avessero mai visto il cielo. A costoro soprattutto si applica quel detto di san Paolo: la loro fine è la perdizione, il loro dio il ventre, giacché attribuiscono valore alle cose terrene. Stando così le cose, come potremmo porre in dubbio l’affermazione che questa gente così incolta, così barbara, contaminata da così nefandi sacrifici ed empie credenze, è stata conquistata da un re eccellente, pio e giusto quale fu Ferdinando [Ferdinando II “Il Cattolico” (1452 – 1516) re di Aragona, Sicilia, Sardegna e Napoli] ed è attualmente imperatore Carlo [Carlo V (1500-1558) re di Spagna (1516-1556) e imperatore del Sacro Romano Impero (1519 – 1556)], e da una nazione eccellente in ogni genere di virtù, con il maggior diritto e il miglior beneficio per gli stessi barbari? Prima della venuta dei cristiani avevano il carattere, i costumi, la religione e i nefandi sacrifici che abbiamo descritto; ora, dopo aver ricevuto col nostro dominio le nostre lettere, le nostre leggi e la nostra morale ed essersi impregnati della religione cristiana, coloro – e sono molti – che si sono mostrati docili ai maestri e ai sacerdoti che abbiamo loro procurato, si discostano tanto dalla loro prima condizione quanto i civilizzati dai barbari, i dotati di vista dai ciechi, i mansueti dagli aggressivi, i pii dagli empi e, per dirla con una sola espressione, quasi quanto gli uomini dalle bestie."
da J. G. de Sepúlveda, Democrates alter, sive de justis belli causis apud indos, in La scoperta dei selvaggi, Principato, Milano 1971, pp. 259-260.
Ho parlato del carattere e dei costumi di questi barbari; che dire ora dell’empia religione e nefandi sacrifici di tale gente, che venerando il demonio come Dio, non trova di meglio per placarlo che offrirgli in sacrificio cuori umani? Questa sarebbe una cosa buona, se per “cuori” si intendessero le anime immacolate e pie degli uomini; ma loro riferivano questa cessione non allo spirito che vivifica (per usare le parole di san Paolo) ma alla lettera che uccide, e ne davano una interpretazione stolta e barbara, pensando che si dovessero sacrificare vittime umane: e aprendo i petti degli uomini ne strappavano i cuori e li offrivano sulle are nefande, credendo così di aver fatto un sacrificio secondo il modo stabilito e di aver placato gli dei. Essi stessi poi si cibavano delle carni degli uomini immolati. Questi crimini, che superano ogni umana perversità, sono considerati dai filosofi tra le più feroci e abominevoli scelleratezze. E quanto al fatto che alcune di quelle popolazioni, secondo quanto si dice, manchino completamente di ogni religione e di ogni conoscenza di che altro è questo se non negare l’esistenza di Dio e vivere come le bestie? Non vedo cosa si potrebbe escogitare di più grave, di più turpe, di più alieno alla natura umana. Il genere di idolatria più vergognoso è quello di quanti venerano come dio il ventre e le parti più turpi del corpo, considerano religione e virtù i piaceri carnali, e come porci tengono sempre lo sguardo fisso a terra, quali non avessero mai visto il cielo. A costoro soprattutto si applica quel detto di san Paolo: la loro fine è la perdizione, il loro dio il ventre, giacché attribuiscono valore alle cose terrene. Stando così le cose, come potremmo porre in dubbio l’affermazione che questa gente così incolta, così barbara, contaminata da così nefandi sacrifici ed empie credenze, è stata conquistata da un re eccellente, pio e giusto quale fu Ferdinando [Ferdinando II “Il Cattolico” (1452 – 1516) re di Aragona, Sicilia, Sardegna e Napoli] ed è attualmente imperatore Carlo [Carlo V (1500-1558) re di Spagna (1516-1556) e imperatore del Sacro Romano Impero (1519 – 1556)], e da una nazione eccellente in ogni genere di virtù, con il maggior diritto e il miglior beneficio per gli stessi barbari? Prima della venuta dei cristiani avevano il carattere, i costumi, la religione e i nefandi sacrifici che abbiamo descritto; ora, dopo aver ricevuto col nostro dominio le nostre lettere, le nostre leggi e la nostra morale ed essersi impregnati della religione cristiana, coloro – e sono molti – che si sono mostrati docili ai maestri e ai sacerdoti che abbiamo loro procurato, si discostano tanto dalla loro prima condizione quanto i civilizzati dai barbari, i dotati di vista dai ciechi, i mansueti dagli aggressivi, i pii dagli empi e, per dirla con una sola espressione, quasi quanto gli uomini dalle bestie."
da J. G. de Sepúlveda, Democrates alter, sive de justis belli causis apud indos, in La scoperta dei selvaggi, Principato, Milano 1971, pp. 259-260.
mercoledì 20 novembre 2013
giovedì 7 novembre 2013
lunedì 4 novembre 2013
lunedì 28 ottobre 2013
martedì 22 ottobre 2013
La poesia e lo spirito- Potrà questa bellezza rovesciare il mondo?
Guido Cavalcanti: sonetto XVIII delle rime
Noi siàn le tristi penne isbigottite,
le cesoiuzze e il coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.
le cesoiuzze e il coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.
Or vi diciàn perché noi sian partite
e siàn venute a voi qui di presente,
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;
e siàn venute a voi qui di presente,
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;
le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte
ch’altro non v’è rimaso che sospiri.
ed hannol posto sì presso a la morte
ch’altro non v’è rimaso che sospiri.
Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegniate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri.
che non sdegniate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri.
C’è già buona parte del mondo poetico cavalcantiano. A parlare sono gli strumenti antichi della scrittura, la penna d’oca, le forbici per farle la punta, il coltellino per raschiare la pergamena, gli oggetti che, per scrivere, ha maneggiato l’autore. Come suoi sostituti si presentano alla donna amata e la pregano in vece sua, concretizzano il sentimento dell’autore e a un tempo lo spersonalizzano distaccandoli da colui che scrive. Sono una sorta di correlativo oggettivo, proiezioni, simboli di un mondo psichico dominato, come vedremo, dallo sbigottimento, dal dolore, dal presentimento di morte. La spersonalizzazione, una tendenza interna al canone espressivo dello Stilnovo, raggiunge in Cavalcanti conseguenze estreme, qui configurata negli strumenti di scrittura; altrove a essere chiamate in causa sono le parole stesse o, più comunemente, le forme poetiche che esse assumono, il sonetto, la ballata o la canzone, apostrofate dall’io lirico come mediatrici nei confronti della donna.
.....................................
L’unità del soggetto amante è distrutta, risulta, come ho già detto, spersonalizzata. Il lettore non viene a trovarsi nelle pieghe psicologiche di un individuo specifico che spera, desidera, soffre. Viene a conoscenza invece di entità fisiche, psichiche, fantastiche o proprio fantasmatiche, personaggi di un dramma teatrale sempre in scena, e sono Anima, Cuore, Mente, Spiriti vitali, Amore, Morte, Paura. La teatralizzazione si attua cioè con la personificazione di sentimenti, facoltà, persino oggetti, come nel caso degli strumenti per scrivere, i quali agiscono, parlano, patiscono come esseri viventi. Anima, Cuore, Mente da una parte (una trilogia averroistica rispetto alla dualità di anima, che è ragione, e di cuore, che è appetito, in Dante) e poi una serie di spiriti e spiritelli che sono proiezioni degli stati d’animo del poeta, dotati di moto e di sentimenti autonomi, spiriti che fuggono, che tremano, che si radunano per poi disperdersi di nuovo come un esercito in rotta. E tutti sono soggetti protagonisti e fanno perdere al lettore l’unità dell’io lirico in una surreale frantumazione e dispersione
La poesia e lo spirito
mercoledì 16 ottobre 2013
Calvino, Cavalcanti e la leggerezza
Italo Calvino LEGGEREZZA (Lezioni americane) - 3^ Parte CAVALCANTI E DANTE
Riflessi d'acqua è una pagina che è stata creata da noi facendo nostra la definizione della Leggerezza che dà Calvino: Leggerezza pensosa e volitiva, leggerezza non di piuma in balìa passiva di ogni vento, ma di rondine che libera volteggia negli spazi aperti sapendo dove andare...
La lezione di Calvino ci piace quindi donarla a tutti ... in lei sono le ragioni della nostra scelta e del nostro essere
Italo Calvino LEGGEREZZA (Italo Calvino, Lezioni americane)
(...)
Da quanto ho detto fin qui mi pare che il concetto di leggerezza cominci a precisarsi; spero innanzitutto d'aver dimostrato che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca. Non potrei illustrare meglio questa idea che con una novella del Decameron (Vi, 9) dove appare il poeta fiorentino Guido Cavalcanti. Boccaccio ci presenta Cavalcanti come un austero filosofo che passeggia meditando tra i sepolcri di marmo davanti a una chiesa.
La jeunesse dorée fiorentina cavalcava per la città in brigate che passavano da una festa all'altra, sempre cercando occasioni d'ampliare il loro giro di scambievoli inviti.
Cavalcanti non era popolare tra loro, perché, benché fosse ricco ed elegante, non accettava mai di far baldoria con loro e perché la sua misteriosa filosofia era sospettata d'empietà:
Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d'Orto San Michele e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, e egli essendo tralle colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, vedendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: "Andiamo a dargli briga"; e spronati i cavalli, a guisa d'uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra e cominciarongli a dire: "Guido, tu rifiuti d'esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?". A' quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: "Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace"; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato dall'altra parte, e sviluppatosi da loro se n'andò.
Ciò che qui ci interessa non è tanto la battuta attribuita a Cavalcanti, (che si può interpretare considerando che il preteso "epicureismo" del poeta era in realtà averroismo, per cui l'anima individuale fa parte dell'intelletto universale: le tombe sono casa vostra e non mia in quanto la morte corporea è vinta da chi s'innalza alla contemplazione universale attraverso la speculazione dell'intelletto).
Ciò che ci colpisce è l'immagine visuale che Boccaccio evoca: Cavalcanti che si libera d'un salto "sì come colui che leggerissimo era". Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta- filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d'automobili arrugginite.
Vorrei che conservaste quest'immagine nella mente, ora che vi parlerò di Cavalcanti poeta della leggerezza.
Nelle sue poesie le "dramatis personae" più che personaggi umani sono sospiri, raggi luminosi, immagini ottiche, e soprattutto quegli impulsi o messaggi immateriali che egli chiama "spiriti".
Un tema niente affatto leggero come la sofferenza d'amore, viene dissolto da Cavalcanti in entità impalpabili che si spostano tra anima sensitiva e anima intellettiva, tra cuore e mente, tra occhi e voce.
Insomma, si tratta sempre di qualcosa che è contraddistinto da tre caratteristiche:
1) è leggerissimo;
2) è in movimento;
3) è un vettore d'informazione.
In alcune poesie questo messaggio-messaggero è lo stesso testo poetico: nella più famosa di tutte, il poeta esiliato si rivolge alla ballata che sta scrivendo e dice: "Va tu, leggera e piana dritt'a la donna mia". In un'altra sono gli strumenti della scrittura - penne e arnesi per far la punta alle penne - che prendono la parola: "Noi siàn le triste penne isbigottite, le cesoiuzze e'l coltellin dolente...".
In un sonetto la parola "spirito" o "spiritello" compare in ogni verso: in un'evidente autoparodia, Cavalcanti porta alle ultime conseguenze la sua predilezione per quella parola-chiave, concentrando nei 14 versi un complicato racconto astratto in cui intervengono 14 "spiriti" ognuno con una diversa funzione. In un altro sonetto, il corpo viene smembrato dalla sofferenza amorosa, ma continua a camminare come un automa "fatto di rame o di pietra o di legno".
Già in un sonetto di Guinizelli la pena amorosa trasformava il poeta in una statua d'ottone: un'immagine molto concreta, che ha la forza proprio nel senso di peso che comunica.
In Cavalcanti, il peso della materia si dissolve per il fatto che i materiali del simulacro umano possono essere tanti, intercambiabili; la metafora non impone un oggetto solido, e neanche la parola "pietra" arriva ad appesantire il verso. Ritroviamo quella parità di tutto ciò che esiste di cui ho parlato a proposito di Lucrezio e di Ovidio. Un maestro della critica stilistica italiana, Gianfranco Contini, la definisce "parificazione cavalcantiana dei reali". L'esempio più felice di "parificazione dei reali", Cavalcanti lo dà in un sonetto che s'apre con una enumerazione d'immagini di bellezza, tutte destinate a essere superate dalla bellezza della donna amata: Biltà di donna e di saccente core e cavalieri armati che sien genti; cantar d'augelli e ragionar d'amore; adorni legni 'n mar forte correnti; aria serena quand'apar l'albore e bianca neve scender senza venti; rivera d'acqua e prato d'ogni fiore; oro, argento, azzurro 'n ornamenti: Il verso "e bianca neve scender senza venti" è stato ripreso con poche varianti da Dante nell'Inferno (Xiv, 30): "come di neve in alpe sanza vento".
I due versi sono quasi identici, eppure esprimono due concezioni completamente diverse. In entrambi la neve senza vento evoca un movimento lieve e silenzioso. Ma qui si ferma la somiglianza e comincia la diversità. In Dante il verso è dominato dalla specificazione del luogo ("in alpe"), che evoca uno scenario montagnoso. Invece in Cavalcanti l'aggettivo "bianca", che potrebbe sembrare pleonastico, unito al verbo "scendere", anch'esso del tutto prevedibile, cancellano il paesaggio in un'atmosfera di sospesa astrazione.
Ma è soprattutto la prima parola a determinare il diverso significato dei due versi. In Cavalcanti la congiunzione "e" mette la neve sullo stesso piano delle altre visioni che la precedono e la seguono: una fuga di immagini, che è come un campionario delle bellezze del mondo. In Dante l'avverbio "come" rinchiude tutta la scena nella cornice d'una metafora, ma all'interno di questa cornice essa ha una sua realtà concreta, così come una realtà non meno concreta e drammatica ha il paesaggio dell'Inferno sotto una pioggia di fuoco, per illustrare il quale viene introdotta la similitudine con la neve.
In Cavalcanti tutto si muove così rapidamente che non possiamo renderci conto della sua consistenza ma solo dei suoi effetti; in Dante, tutto acquista consistenza e stabilità: il peso delle cose è stabilito con esattezza. Anche quando parla di cose lievi, Dante sembra voler rendere il peso esatto di questa leggerezza: "come di neve in alpe sanza vento". Così come in un altro verso molto simile, la pesantezza d'un corpo che affonda nell'acqua e scompare è come trattenuta e attutita: "come per acqua cupa cosa grave" (Paradiso Iii, 123).
A questo punto dobbiamo ricordarci che l'idea del mondo come costituito d'atomi senza peso ci colpisce perché abbiamo esperienza del peso delle cose; così come non potremmo ammirare la leggerezza del linguaggio se non sapessimo ammirare anche il linguaggio dotato di peso.
Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l'una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d'impulsi magnetici; l'altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni.
Alle origini della letteratura italiana - e europea - queste due vie sono aperte da Cavalcanti e da Dante. L'opposizione vale naturalmente nelle sue linee generali, ma richiederebbe innumerevoli specificazioni, data l'enorme ricchezza di risorse di Dante e la sua straordinaria versatilità. Non è un caso che il sonetto di Dante ispirato alla più felice leggerezza ("Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io") sia dedicato a Cavalcanti. Nella Vita nuova, Dante tratta la stessa materia del suo maestro e amico, e vi sono parole, motivi e concetti che si trovano in entrambi i poeti; quando Dante vuole esprimere leggerezza, anche nella Divina Commedia, nessuno sa farlo meglio di lui; ma la sua genialità si manifesta nel senso opposto, nell'estrarre dalla lingua tutte le possibilità sonore ed emozionali e d'evocazione di sensazioni, nel catturare nel verso il mondo in tutta la varietà dei suoi livelli e delle sue forme e dei suoi attributi, nel trasmettere il senso che il mondo è organizzato in un sistema, in un ordine, in una gerarchia dove tutto trova il suo posto. Forzando un po' la contrapposizione potrei dire che Dante dà solidità corporea anche alla più astratta speculazione intellettuale, mentre Cavalcanti dissolve la concretezza dell'esperienza tangibile in versi dal ritmo scandito, sillabato, come se il pensiero si staccasse dall'oscurità in rapide scariche elettriche.
La lezione di Calvino ci piace quindi donarla a tutti ... in lei sono le ragioni della nostra scelta e del nostro essere
Italo Calvino LEGGEREZZA (Italo Calvino, Lezioni americane)
(...)
Da quanto ho detto fin qui mi pare che il concetto di leggerezza cominci a precisarsi; spero innanzitutto d'aver dimostrato che esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca. Non potrei illustrare meglio questa idea che con una novella del Decameron (Vi, 9) dove appare il poeta fiorentino Guido Cavalcanti. Boccaccio ci presenta Cavalcanti come un austero filosofo che passeggia meditando tra i sepolcri di marmo davanti a una chiesa.
La jeunesse dorée fiorentina cavalcava per la città in brigate che passavano da una festa all'altra, sempre cercando occasioni d'ampliare il loro giro di scambievoli inviti.
Cavalcanti non era popolare tra loro, perché, benché fosse ricco ed elegante, non accettava mai di far baldoria con loro e perché la sua misteriosa filosofia era sospettata d'empietà:
Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d'Orto San Michele e venutosene per lo Corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, e egli essendo tralle colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, vedendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: "Andiamo a dargli briga"; e spronati i cavalli, a guisa d'uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra e cominciarongli a dire: "Guido, tu rifiuti d'esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?". A' quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: "Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace"; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fusi gittato dall'altra parte, e sviluppatosi da loro se n'andò.
Ciò che qui ci interessa non è tanto la battuta attribuita a Cavalcanti, (che si può interpretare considerando che il preteso "epicureismo" del poeta era in realtà averroismo, per cui l'anima individuale fa parte dell'intelletto universale: le tombe sono casa vostra e non mia in quanto la morte corporea è vinta da chi s'innalza alla contemplazione universale attraverso la speculazione dell'intelletto).
Ciò che ci colpisce è l'immagine visuale che Boccaccio evoca: Cavalcanti che si libera d'un salto "sì come colui che leggerissimo era". Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta- filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d'automobili arrugginite.
Vorrei che conservaste quest'immagine nella mente, ora che vi parlerò di Cavalcanti poeta della leggerezza.
Nelle sue poesie le "dramatis personae" più che personaggi umani sono sospiri, raggi luminosi, immagini ottiche, e soprattutto quegli impulsi o messaggi immateriali che egli chiama "spiriti".
Un tema niente affatto leggero come la sofferenza d'amore, viene dissolto da Cavalcanti in entità impalpabili che si spostano tra anima sensitiva e anima intellettiva, tra cuore e mente, tra occhi e voce.
Insomma, si tratta sempre di qualcosa che è contraddistinto da tre caratteristiche:
1) è leggerissimo;
2) è in movimento;
3) è un vettore d'informazione.
In alcune poesie questo messaggio-messaggero è lo stesso testo poetico: nella più famosa di tutte, il poeta esiliato si rivolge alla ballata che sta scrivendo e dice: "Va tu, leggera e piana dritt'a la donna mia". In un'altra sono gli strumenti della scrittura - penne e arnesi per far la punta alle penne - che prendono la parola: "Noi siàn le triste penne isbigottite, le cesoiuzze e'l coltellin dolente...".
In un sonetto la parola "spirito" o "spiritello" compare in ogni verso: in un'evidente autoparodia, Cavalcanti porta alle ultime conseguenze la sua predilezione per quella parola-chiave, concentrando nei 14 versi un complicato racconto astratto in cui intervengono 14 "spiriti" ognuno con una diversa funzione. In un altro sonetto, il corpo viene smembrato dalla sofferenza amorosa, ma continua a camminare come un automa "fatto di rame o di pietra o di legno".
Già in un sonetto di Guinizelli la pena amorosa trasformava il poeta in una statua d'ottone: un'immagine molto concreta, che ha la forza proprio nel senso di peso che comunica.
In Cavalcanti, il peso della materia si dissolve per il fatto che i materiali del simulacro umano possono essere tanti, intercambiabili; la metafora non impone un oggetto solido, e neanche la parola "pietra" arriva ad appesantire il verso. Ritroviamo quella parità di tutto ciò che esiste di cui ho parlato a proposito di Lucrezio e di Ovidio. Un maestro della critica stilistica italiana, Gianfranco Contini, la definisce "parificazione cavalcantiana dei reali". L'esempio più felice di "parificazione dei reali", Cavalcanti lo dà in un sonetto che s'apre con una enumerazione d'immagini di bellezza, tutte destinate a essere superate dalla bellezza della donna amata: Biltà di donna e di saccente core e cavalieri armati che sien genti; cantar d'augelli e ragionar d'amore; adorni legni 'n mar forte correnti; aria serena quand'apar l'albore e bianca neve scender senza venti; rivera d'acqua e prato d'ogni fiore; oro, argento, azzurro 'n ornamenti: Il verso "e bianca neve scender senza venti" è stato ripreso con poche varianti da Dante nell'Inferno (Xiv, 30): "come di neve in alpe sanza vento".
I due versi sono quasi identici, eppure esprimono due concezioni completamente diverse. In entrambi la neve senza vento evoca un movimento lieve e silenzioso. Ma qui si ferma la somiglianza e comincia la diversità. In Dante il verso è dominato dalla specificazione del luogo ("in alpe"), che evoca uno scenario montagnoso. Invece in Cavalcanti l'aggettivo "bianca", che potrebbe sembrare pleonastico, unito al verbo "scendere", anch'esso del tutto prevedibile, cancellano il paesaggio in un'atmosfera di sospesa astrazione.
Ma è soprattutto la prima parola a determinare il diverso significato dei due versi. In Cavalcanti la congiunzione "e" mette la neve sullo stesso piano delle altre visioni che la precedono e la seguono: una fuga di immagini, che è come un campionario delle bellezze del mondo. In Dante l'avverbio "come" rinchiude tutta la scena nella cornice d'una metafora, ma all'interno di questa cornice essa ha una sua realtà concreta, così come una realtà non meno concreta e drammatica ha il paesaggio dell'Inferno sotto una pioggia di fuoco, per illustrare il quale viene introdotta la similitudine con la neve.
In Cavalcanti tutto si muove così rapidamente che non possiamo renderci conto della sua consistenza ma solo dei suoi effetti; in Dante, tutto acquista consistenza e stabilità: il peso delle cose è stabilito con esattezza. Anche quando parla di cose lievi, Dante sembra voler rendere il peso esatto di questa leggerezza: "come di neve in alpe sanza vento". Così come in un altro verso molto simile, la pesantezza d'un corpo che affonda nell'acqua e scompare è come trattenuta e attutita: "come per acqua cupa cosa grave" (Paradiso Iii, 123).
A questo punto dobbiamo ricordarci che l'idea del mondo come costituito d'atomi senza peso ci colpisce perché abbiamo esperienza del peso delle cose; così come non potremmo ammirare la leggerezza del linguaggio se non sapessimo ammirare anche il linguaggio dotato di peso.
Possiamo dire che due vocazioni opposte si contendono il campo della letteratura attraverso i secoli: l'una tende a fare del linguaggio un elemento senza peso, che aleggia sopra le cose come una nube, o meglio un pulviscolo sottile, o meglio ancora come un campo d'impulsi magnetici; l'altra tende a comunicare al linguaggio il peso, lo spessore, la concretezza delle cose, dei corpi, delle sensazioni.
Alle origini della letteratura italiana - e europea - queste due vie sono aperte da Cavalcanti e da Dante. L'opposizione vale naturalmente nelle sue linee generali, ma richiederebbe innumerevoli specificazioni, data l'enorme ricchezza di risorse di Dante e la sua straordinaria versatilità. Non è un caso che il sonetto di Dante ispirato alla più felice leggerezza ("Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io") sia dedicato a Cavalcanti. Nella Vita nuova, Dante tratta la stessa materia del suo maestro e amico, e vi sono parole, motivi e concetti che si trovano in entrambi i poeti; quando Dante vuole esprimere leggerezza, anche nella Divina Commedia, nessuno sa farlo meglio di lui; ma la sua genialità si manifesta nel senso opposto, nell'estrarre dalla lingua tutte le possibilità sonore ed emozionali e d'evocazione di sensazioni, nel catturare nel verso il mondo in tutta la varietà dei suoi livelli e delle sue forme e dei suoi attributi, nel trasmettere il senso che il mondo è organizzato in un sistema, in un ordine, in una gerarchia dove tutto trova il suo posto. Forzando un po' la contrapposizione potrei dire che Dante dà solidità corporea anche alla più astratta speculazione intellettuale, mentre Cavalcanti dissolve la concretezza dell'esperienza tangibile in versi dal ritmo scandito, sillabato, come se il pensiero si staccasse dall'oscurità in rapide scariche elettriche.
martedì 8 ottobre 2013
Il dolce stil novo
Dante, canto ventiseiesimo del Purgatorio : "tutti coloro che posero l'amore più in alto di Dio"
E' tale Guinizelli che nella sua canzone "Al cor gentil rempaira sempre amore" recita nella strofa finale:
Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»,
sïando l’alma mia a lui davanti.
«Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per semblanti:
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude».
Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza».
E' tale Guinizelli che nella sua canzone "Al cor gentil rempaira sempre amore" recita nella strofa finale:
Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»,
sïando l’alma mia a lui davanti.
«Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per semblanti:
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude».
Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza».
Guido Guinizzelli, espia il suo peccato del quale si pentì prima di morire. Al sentire il nome del «padre [suo] e degli altri [...] che rime d'amore usar[ono] dolci e leggiadre» - vale a dire del fondatore del Dolce Stil Novo -, Dante vorrebbe abbracciarlo ma non osa per timore del fuoco; allora procede pensoso per un tratto, finché offre a Guinizzelli i suoi servigi.
Guinizzelli risponde toccato da questa offerta di cui - afferma - il Lete (il fiume dell'oblio) non potrà ternire il ricordo, e chiede per quale ragione egli dimostri tanto amore nei suoi confronti, ragione - risponde Dante - che si può individuare nei suoi «dolci detti», che saranno apprezzati finché durerà l'«uso moderno» (vale a dire la poesia in lingua volgare).
"Dante ammira notevolmente Guido, tuttavia gli imputa un a colpa. E'possibile che una persona, pur avendo stima e amicizia per un'altra, le possa imputare una colpa?Rifletti su questo tema , riferendoti anche ad esempi tratti dalla tua esperienza o dalla storia o dalla cronaca quotidiano attuale .
martedì 17 settembre 2013
Sordello da Goito
SORDELLO DA GOITO
Sordello da Goito, del territorio di Mantova, è
stato uno tra i più importanti poeti europei “Trovatori” dell'Italia
settentrionale. Nel basso medioevo il trovatore o trovadore o trobadore
era un compositore ed esecutore di poesia lirica occitana o “lingua d'oc”,
detta anche “provenzale”, una lingua romanza parlata in Occitania, vasta
regione storica comprendente gran parte del sud della Francia, la catalana Val
d'Aran in Spagna, le Valli Occitane in Italia e le “isole linguistiche” della Calabria
e di Guardia Piemontese. I Trovatori,
non utilizzando il latino, lingua degli ecclesiastici, e
introducendo l'occitano, sono stati i poeti che aprirono la strada alla poesia
in lingua volgare.
Sordello
nacque all'inizio del XIII secolo da una famiglia appartenente alla piccola
nobiltà, essendo il padre “Miles” presso il Castello di Goito. Giullare di
corte (poeta, attore, intrattenitore), Sordello ebbe una vita movimentata e
intensa. Amante della bella vita e delle donne, visse nelle corti più note
d'Europa, dove si distinse per la sua lealtà cavalleresca e le sue capacità
tattiche e organizzative. Dopo essere stato a Ferrara, presso la corte di Azzo
d'Este, si spostò a Verona, alla corte di Ezzelino III e Alberico da Romano,
sposandosi nel frattempo con Otta degli Strasso, di nobile famiglia. Nel 1229
lasciò la corte da Romano e, per varie vicende politiche, si recò in
Spagna, Portogallo e in Provenza dove, dal conte Raimondo Berengario IV, fu
insignito della nomina di Cavaliere e assegnati alcuni feudi.
Alla
morte di Berengario, Sordello rimase con il suo erede Carlo I d'Angiò fino al
1265 quando, al suo seguito, ritornò in Italia, dove il
12 marzo 1269, elevato al rango di "miles" (uomo d'armi) e "familiaris" (uomo di corte), per l'appoggio e i servizi prestati con tanta fedeltà, ricevette
i castelli di Monte S. Silvestro, Pili, Paglieta,
Monteodorisio con il Casale di Castiglione (oggi S. Lorenzo di Vasto), in
un'unica contiguità territoriale su tratturi, per una rendita di 157 once d'oro. Sordello
ricevette l'investitura dei feudi "per anulum" a Foggia, ma non ne rimase soddisfatto e lo si capisce dall'agire del re, che,
un mese dopo, nel tentativo di accontentarlo, gli aggiunse Civitaquana e Ginestra.
Ma Sordello ambiva alla Contea di Chieti, conferita, il 30 giugno stesso, al nobile francese Radulfo (o Raul o Rodolfo) De Courtinay (Cortinacio) per averlo
appoggiato contro gli Svevi, e Sordello accettò di scambiare i feudi ricevuti con il
castello di Palena,
di uguale valore, ma con mulini e lanifici.
Carlo
d'Angiò non avendo soddisfatto l'ambizione di Sordello, disse di lui: SORDELLO HO TENUTO CARO, ONORATO SEMPRE. GLI DONAI GUALCHIERE,
MULINI, ALTRI BENI. CHI GLI DONASSE UNA CONTEA GRATO NON GLIENE SARIA (traduzione dall'originale a cura dello Storico
Candido greco - Versione corrente: Sordello ho tenuto caro, onorato sempre.
Gli donai Lanifici, Mulini e altri beni. Anche se qualcuno gli donasse una
Contea, non glie ne sarebbe grato o contento. Il 1269 è ritenuto anche l'anno della morte di
Sordello, avvenuta probabilmente in maniera violenta, vista la collocazione che
Dante ne fa nella Divina Commedia. Il possesso dei nostri feudi fu di certo
solo nominale e per pochi mesi, ma sufficiente per fare di Monte S. Silvestro e
Pili due altri fiori all'occhiello della storia della Città Atessa.
DANTE E SORDELLO
Di Sordello ci restano 42 liriche ed il poemetto
didascalico Ensenhamen d'onor
(Precetti d'onore). Il testo più famoso è il Compianto in morte di ser Blacatz, elogio funebre di un signore provenzale.
Ma la sua fama è dovuta principalmente al ritratto
che poeticamente Dante Alighieri ne delinea nei canti VI, VII, VIII del
Purgatorio.
Il canto sesto si svolge nell'Antipurgatorio, dove
le anime dei negligenti (coloro che trascurarono i propri doveri spirituali)
attendono di poter iniziare la loro espiazione.
Virgilio indica a Dante un'anima solitaria che guarda verso di loro, che potrà
indicare la via più facile da percorrere. I due si avvicinano, e Dante è
colpito dall'aspetto dignitoso ed austero di quell'anima, che seguiva i loro
passi solo con lo sguardo. Virgilio si accosta chiedendo indicazioni sul
cammino, ma l'anima invece di rispondere chiede chi siano e di dove. La
risposta di Virgilio inizia con la parola "Mantua", Mantova! E' sufficiente la sola parola perché l'anima
esca dal suo atteggiamento di severo distacco: balza in piedi esclamando di
essere suo concittadino. Sordello e Virgilio si abbracciano. L'imprevisto
abbraccio, suscita in Dante un'energica ed amara apostrofe all'Italia, definita
serva, luogo di dolore, nave senza guida, bordello, dove dominano guerre e
contese anche fra gli abitanti di una stessa città.
Ma vedi là un'anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda: quella ne 'nsegnerà la via più tosta».
Venimmo a lei: o anima lombarda,come ti stavi altera e disdegnosa e nel mover
de li occhi onesta e tarda! Ella non ci dicea alcuna cosa,ma lasciavane gir,
solo sguardando a guisa di leon quando si posa. Pur Virgilio si trasse a lei,
pregando che ne mostrasse la miglior salita; e quella non rispuose al suo
dimando,ma di nostro paese e de la vita ci 'nchiese; e 'l dolce duca
incominciava «Mantua...», e l'ombra, tutta in sé romita,surse ver' lui del loco
ove pria stava, dicendo: «O Mantoano, io son Sordello de la tua terra!»; e l'un
l'altro abbracciava. Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere
in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!
(Purgatorio, canto VI, versetti
60-78)
sabato 14 settembre 2013
El cantar de Mio Cid
Apriamo il blog di quest'anno con interventi relativi al poema epico iberico...
venerdì 13 settembre 2013
Orario settimana 16-21
Lunedì:STORIA, ITALIANO Studi delle vacanze: Introduzione allo studio della letteratura e Chanson de Roland
Martedì: ITALIANO idem
Mercoledì ITALIANO idem
Giovedì ITALIANO Verifica Chanson de Roland; STORIA
Martedì: ITALIANO idem
Mercoledì ITALIANO idem
Giovedì ITALIANO Verifica Chanson de Roland; STORIA
lunedì 24 giugno 2013
martedì 11 giugno 2013
FINAL-MENTE !
E così siamo alla grande
pausa (preferirei chiamarla così, non la fine) .Abbiamo cominciato per
sperimentare una forma di uso didattico di u n blog di informazione e
discussione , e siamo stati confortati da una partecipazione assidua e intelligente,
che ci ha dato un supporto in più alla nostra attività reciproca insegnante e
studenti, lo studente ha potuto diventare a sua volta insegnante.
Per movimentare il tutto, si è voluto anche valutare un pò la partecipazione.
Dopo che Ilaria si era portata in vantaggio, Ester ha completato la grande rimonta aggiudicandosi i 100 personaggi;Ester ha addirittura cercato di staccare la compagna, con la risposta per la rappresentazione teatrale di Siracusa, ma Ilaria ha resistito,rimanendo incollata fino alla fine.
Brillanti le imprese di Tommaso, Valeria, Elisa; Edoardo T., benché un pò rocambolescamente, ha perseguito una grande rimonta; un grande Luca del primo quadrimestre si è un pò arenato nel secondo, conservando per altro una discreta posizione. Poi con dignità Fabio, Marco,Matteo, Candela, Simona ,Nicolò , e andrea, Edo F, ,Leonard.......fino a Edo O, degno seguace del mitico ciclista del giro d'Italia di un tempo, tal Malabrocca, capace di resistere all'ultimo posto fino alla fine e di conquistare ..la maglia nera!
La classifica:
-zona Champion:
-Ester, Ilaria p. 40
-Tommaso e Edo.T 27
Valeria 25
Elisa 24
-centro-classifica:
Fabio e Marco 13
Luca e Matteo 10
Candela, Nicolò e Simona 9
Andrea ed Edo F. 8
Leonard 4
-maglia nera:
Edo O. 2 .
Per movimentare il tutto, si è voluto anche valutare un pò la partecipazione.
Dopo che Ilaria si era portata in vantaggio, Ester ha completato la grande rimonta aggiudicandosi i 100 personaggi;Ester ha addirittura cercato di staccare la compagna, con la risposta per la rappresentazione teatrale di Siracusa, ma Ilaria ha resistito,rimanendo incollata fino alla fine.
Brillanti le imprese di Tommaso, Valeria, Elisa; Edoardo T., benché un pò rocambolescamente, ha perseguito una grande rimonta; un grande Luca del primo quadrimestre si è un pò arenato nel secondo, conservando per altro una discreta posizione. Poi con dignità Fabio, Marco,Matteo, Candela, Simona ,Nicolò , e andrea, Edo F, ,Leonard.......fino a Edo O, degno seguace del mitico ciclista del giro d'Italia di un tempo, tal Malabrocca, capace di resistere all'ultimo posto fino alla fine e di conquistare ..la maglia nera!
La classifica:
-zona Champion:
-Ester, Ilaria p. 40
-Tommaso e Edo.T 27
Valeria 25
Elisa 24
-centro-classifica:
Fabio e Marco 13
Luca e Matteo 10
Candela, Nicolò e Simona 9
Andrea ed Edo F. 8
Leonard 4
-maglia nera:
Edo O. 2 .
lunedì 10 giugno 2013
Come sarà la classifica finale?
Ancora poche ore e avremo il verdetto definitivo di questo anno scolastico|!
sarà un vincitore o una vincitrice?
Sarà Ester o Ilaria? o il ricorso di Edoardo T.sarà stato accolto e avrà compiuto il miracolo del sorpasso sul filo di lana, contro ogni pronostico ? Poche ore, poche ore....magari domattina alla quarta ora!
sarà un vincitore o una vincitrice?
Sarà Ester o Ilaria? o il ricorso di Edoardo T.sarà stato accolto e avrà compiuto il miracolo del sorpasso sul filo di lana, contro ogni pronostico ? Poche ore, poche ore....magari domattina alla quarta ora!
mercoledì 5 giugno 2013
Da Tommaso Paris. maltempo in Europa
Maltempo in Europa Centrale: 7 morti in Repubblica ceca, esercito in campo in Germania
Continua a piovere incessantemente: a Praga chiuse le scuole, evacuato un ospedale. In Germania schierato l'esercito
Continua a piovere incessantemente: a Praga chiuse le scuole, evacuato un ospedale. In Germania schierato l'esercito
Luisa De Montis - Lun, 03/06/2013 - 13:13
Sono saliti almeno a quattro i morti in Repubblica Ceca a causa del maltempo.
Altrettanti i dispersi In serata è prevista una diminuzione delle precipitazioni, ma la pioggia continua a cadere senza sosta, alzando l'allarme per il rischio alluvioni. Dichiarato lo stato d'emergenza in tutto il Paese, ad eccezione delle regioni di Karlovy Vary e di Pardubice, evacuato l'ospedale San Francesco di Praga, chiuse le scuole e la metropolitana. Chiuso anche il giardino zoologico, già distrutto nel 2002 dalla piena del Moldava. In nottata, sono state evacuate complessivamente 2.695 persone, dalle aree vicine ai fiumi, in tutto il Paese. Quattordici le regioni particolarmente colpite.
In campo è sceso anche l'esercito. Nella capitale ceca la portata del fiume ha raggiunto 2760 metri cubi al secondo, contro i 5mila raggiunti undici anni fa. Grave la situazione a Usti nad Labem, Nord boemia, al confine con la Germania, dove l’Elba aumenterà il proprio livello di dieci metri. Militari schierati anche dal governo tedesco contro quelle che sono già state definite le "indondazioni del secolo". Allarme massimo in molti Laender, dove diversi abitanti sono stati evacuati dalle loro case fin dalle prime ore del mattino. Particolarmente critico il livello del Donau e dell’Inn, fiumi che hanno già raggiunto altezze record, rispettivamente di 9 e 12 metri sopra il livello di guardia. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha promesso aiuti e "pieno sostegno" a tutti i Laender colpiti dal maltempo. Anche le ferrovie tedesche hanno prevenuto i viaggiatori e i pendolari che il traffico potrà subire ritardi. La linea ferroviaria del Brennero è bloccata dopo la caduta di due frane sul versante austriaco del valico italo-austriaco. Un treno merci, nonostante una frenata d’emergenza, è finito contro le masse di detriti e deragliato parzialmente. In Tirolo, come in altre zone dell’Austria, la situazione del maltempo è drammatica.
Anche l'Europa pronta a fare la sua parte per Austria, Repubblica Ceca, e Germania con le risorse del fondo Ue per la solidarietà. Lo ha assicurato il commissario Ue alle Politiche regionali Johannes Hahn, in una dichiarazione diffusa dal suo portavoce Shireen Wheeler oggi al briefing di mezzogiorno.
lunedì 3 giugno 2013
L'incontro con la scrittrice Lorenza Bernardi
Saluti, questo potrebbe-dico potrebbe-essere l'ultimo post dell'anno scolastico valido ai fini della classifica al termine del 2012-13.
Per l'estate, v i consiglio di tenere d'occhio il blog, sulle coste dell'Egeo orientale mi ricorderò sempre di voi, e ,se ci sarà una classifica 2013-14, anche l'estate farebbe punti. Sarebbe anche interessante che voi stessi ricordaste a tutti noi cosa state combinando con le vostre vacanze! Insomma continuare,senza impegno pressante...
Ma intanto: per quest'(ultimo?)post verranno assegnati, fino a sabato 8, punti dall'1 al 5 (quindi potrebbero interessare cambiamenti per i l finale!) i n base alla qualità della risposta:
-commenta in 20 righe circa come ti è sembrato l'incontro con la scrittrice Lorenza Bernardi
Infine :punti (p.3, p.2, p.1) per i primi 3 che si avvicinano di più all'interpretazione di questa immagine (non c'è rapporto con la scrittrice):
Per l'estate, v i consiglio di tenere d'occhio il blog, sulle coste dell'Egeo orientale mi ricorderò sempre di voi, e ,se ci sarà una classifica 2013-14, anche l'estate farebbe punti. Sarebbe anche interessante che voi stessi ricordaste a tutti noi cosa state combinando con le vostre vacanze! Insomma continuare,senza impegno pressante...
Ma intanto: per quest'(ultimo?)post verranno assegnati, fino a sabato 8, punti dall'1 al 5 (quindi potrebbero interessare cambiamenti per i l finale!) i n base alla qualità della risposta:
-commenta in 20 righe circa come ti è sembrato l'incontro con la scrittrice Lorenza Bernardi
Infine :punti (p.3, p.2, p.1) per i primi 3 che si avvicinano di più all'interpretazione di questa immagine (non c'è rapporto con la scrittrice):
giovedì 23 maggio 2013
"Carceri indegne di un Paese civile"
Cancellieri: "Carceri indegne di un Paese civile"
Il ministro della Giustizia interviene alla strage per la commemorazione della strage di Capaci. "Per risolvere il problema non bastano nuovi carceri, ma bisogna ripensare il sistema delle pene, valutando se ci sono spazi per quelle alternative"
Annamaria Cancellieri (imagoec)
Il ministro della Giustizia propone la sua ricetta per affrontare l'emergenza carceri. Il carcere deve essere uno strumento perché "si paghino gli errori commessi" ma anche che aiuti i detenuti a uscire "migliori". Per il ministro, resta il problema delle carceri vecchie: "vanno sostituite, per garantire a ciascun detenuto una possibilità decente di alloggio, di sanità e di spazi per poter lavorare. E' un'impresa titanica, ma ce la metteremo tutta per riuscirci". "Chi è in carcere deve avere la possibilità di lavorare o studiare. E' dimostrato che l'80 percento di chi lo fa non ha recidive".
Una questione quella del sistema degli istituti di pena in Italia che è da tempo un emergenza. A gennaio il nostro paese ha ricevuto una condanna dalla Corte europea dei diritti umani.
"Nulla che vada nel senso della legalità può essere divisivo - ha detto Cancellieri - . Dobbiamo cercare di fare il meglio per il
Proprio ricordando la strage di Capaci il ministro ha parlato di mafia. "Vinceremo quando avremo tolto alla mafia ogni possibilità di arricchimento", ha aggiunto il ministro "Le mafie ormai non tengono certo i loro soldi dentro ai materassi, nè investono più solo in Italia, ma in tutto il resto del mondo. Dovete aver fiducia, perché' si e' fatto molto ma si farà' tutto quel che si deve fare per combattere la mafia".
"La battaglia è ancora molto lunga - aggiunge il ministro - . Il fronte importante per il futuro, come diceva Falcone, è la ricerca del denaro e ora c'è il web, che voi conoscete bene: dobbiamo penetrare il quel mondo perché ormai il denaro viene investito dappertutto". E' necessario "agire con la confisca dei beni".
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