In questo romanzo Nadja si definisce cosi: “Io sono l’anima errante”, Breton ne rimane sconvolto e vede in essa l’essenza del surrealismo. E’ un romanzo su un incontro fortuito, su un personaggio sfuggente, su una materia sommamente aleatoria. Inizia con una domanda capitale e insieme un po’ fatua “Chi sono, io?” e con riflessioni e aneddoti prosegue fino all’apparizione del personaggio principale, Nadja, cui Breton si rivolge come in sogno, attratto dalla potenza del suo sguardo, mentre passeggiando la incontra in un boulevard di Parigi.
Disegni e fotografie accompagnano e completano il testo che pare un complicato assemblaggio di pensieri in fuga, riflessioni in cui un pathos d’incantesimo permea la fibra di ogni nervatura del testo. Nei momenti migliori queste schegge sono attraversate da un denso mistero, nei momenti peggiori, questo stesso mistero appare una forzatura un po’ vacua. Perché Breton rimase così colpito da questa donna, con la quale intrecciò una relazione amicale così profonda? La domanda rimane sostanzialmente senza risposta e questo incontro resta misterioso nella sua essenza e il libro forse è una traccia inutile, dichiara alla fine Breton, nell’impossibilità di testimoniare alcunché.
Breton scrive una storia all’apparenza autobiografica, basata tutta su un tessuto di coincidenze, di fascinazioni del tutto personali, prima raccontando di spettacoli teatrali cui ha assistito, poi dell’amicizia con i suoi sodali, infine scrivendo il diario di quest’incontro, fatale per entrambi, misteriosamente colmo di presagi e coincidenze, che però, a tratti, nella rievocazione, paiono gravati da un’eccessiva concettosità. Per attraversare certi periodi si sconta una certa dose di noia, quella noia che ci coglie davanti a ciò che sovverte troppo potentemente i nostri meccanismi letterari, esistenziali.
Invettive contro la psichiatria si alternano a descrizioni di paesaggi parigini, su tutto svetta la figura di Nadja di cui Breton scrive: “ Mi dice il suo nome, quello che si è scelto lei ’ Nadja perché in russo è l’inizio della parola speranza e perché è soltanto l’inizio ’ ”.
I due personaggi vagano per le strade di Parigi, s’incontrano casualmente, si frequentano, si compenetrano, fino a che si separano. E’ una storia di amore platonico, in cui a vincere è il fascino e il mistero di una figura a metà fra la strana saggezza di Sibilla e la follia. Nelle parti migliori del testo Nadja incarna proprio questa figura ferina, colma di un’inesplicabile attitudine alla sentenza, all’aforisma che racchiude un mondo, schiacciata da problemi economici cui Breton, finché potrà, porrà rimedio con generosi slanci.
Breton non sopporta la gente comune, il suo passivo accettare la consuetudine del lavoro e scrive violente requisitorie contro di essa, colpevole di accettare supinamente lo status quo:
” E’ gente che non può avere nulla di interessante dal momento che sopporta il lavoro, con o senza tutte le altre miserie. Che cosa li potrebbe innalzare se la rivolta non è in loro la più forte?( …) Io odio, con tutte le mie forze, questo asservimento che mi si vuole far accettare come un valore. Compiango l’uomo per esservi condannato, per non poter in generale sottrarvisi(…)”
In questo contesto la libertà è “l’atto incessante di spezzare quelle catene” che tengono l’uomo ancorato al buon senso, alla cosiddetta realtà, per volare aldilà delle convenzioni millenarie che hanno fatto dell’uomo uno schiavo. In questo senso, in questa ripulsa verso la normalità e il lavoro, c’è la grande provocazione del poeta francese, il cui messaggio di libertà continua a percorrere, inascoltato, le strade del mondo.
Come Flaubert, Breton ebbe a dire “Nadja sono io”, cogliendo in questa figura sprazzi di quell’originalità che i surrealisti avevano perseguito come un dogma.
Nadja è considerato un romanzo importante per capire il surrealismo, Blanchot ha speso parole decisive su di esso e nel 2007, al tempo della sua ristampa italiana di Einaudi, Il Corriere della Sera dedicò a Nadja un articolo, scritto da Alberto Bevilacqua, dall’inequivocabile titolo de Il ritorno di un capolavoro. .
L’alternanza di testo scritto con fotografie di vedute parigine, o disegni di strane archetipiche figure, ha qualcosa di magico e affascinante che rimane nella memoria. Sembra a tratti di entrare nel museo di un sogno che Baudelaire raccontò in un suo scritto. Nadja è un libro profondamente illustrato in cui gravita un senso di mistero all’opera per unire i nostri destini, casualmente, e casualmente dividerli.
Le requisitorie contro l’uomo comune e la psichiatria hanno una loro efficacia, altrove mi sembra che Breton non riesca del tutto a dare una forma compiuta a questo insieme di ricordi, che si disperdono, però lasciando comunque l’idea che Nadja sia un personaggio indimenticabile, archetipo ferino dell’eterno femminino che cade in basso, nella pazzia e nel manicomio, esiti dell’anticonformismo estremo di chi è consapevole di vagare, da spettro, nel mondo.
C’è la bella ricostruzione di Parigi, che diventa un personaggio all’interno del romanzo al pari degli altri, raccontata attraverso i suoi palazzi, i suoi teatri, i suoi bistrot. C’è poi una costante interrogazione sulla letteratura e sulle sue forme, Breton in Nadja si muove in un territorio ambiguo fra saggio, romanzo, e diario, mescolando i generi o meglio annichilendoli, per far brillare puro l’atto della scrittura come investigazione in quel territorio in cui il reale e il suo fantasma si confondono.
Nessun commento:
Posta un commento