“ Nella hall il portiere
consegnò un biglietto a Pirandello, che subito lo lesse, si scusò con Niccodemi
e si diresse spedito verso il salone. Là trovò Verga, in compagnia del barone
Zappalà Asmundo. Il vecchio puntellò le mani sul basto- ne facendo
le mosse di volersi alzare,
ma Pirandello, svelto,
lo fece riaccomo- dare sulla poltrona. Gli si
sedette di fronte. I due si guardarono negli occhi, non osarono profferir parola.
—Quando riparte,
maestro? — chiese il barone per rompere il silenzio.
—Domani […] — sussurrò
Pirandello, e continuò a guardare quel vecchio
in marsina nera,
la testa che s’ergeva dal solino inamidato, i folti capelli
bian- chi, il viso asciutto, il naso diritto,
i baffi arricciati, lo sguardo
severo, profondo. Gli sembrò, Verga, la personificazione di don Ippolito
Laurentano de I vecchi e i giovani, il principe che non accetta il nuovo tempo,
che si richiude a
Colimbètra, nell’orgoglio nella follia.
Gli sembrò superbo
e ostinato come il
padre suo. Comparò sé, più giovane di quasi trent’anni, il suo viso con i segni
incisi del tormento, il cranio nudo, la barbetta precocemente incanutita, gli occhi sgomenti per il guardare oltre il teatro, oltre l’apparenza, comparò la sua con la ferma maschera, quasi pietrificata
del nobile vegliardo.
—Perdonami Luigi
— disse finalmente Verga. — A te tutta la mia gratitudi- ne, ma
dall’Italia
ufficiale non voglio niente!
Pirandello abbassò
il capo, si sentì in qualche modo complice dell’ufficialità. Si scosse,
tirò fuori dalla
tasca dei fogli,
glieli porse.
— Ecco — disse, —
ecco il discorso […] L’ha ricopiato
per voi mia figlia, Lietta […]
— Ringraziamela tanto […] Ti seguo, Luigi, leggo quanto scrivi […] Ho visto a Milano quella tua commedia […]
Come si chiama? Cosi è […]se vi pare — completò
Pirandello.
— Quel personaggio,
la velata […] Che pena! Ripiombarono di nuovo nel silenzio.
Verga inforcò gli occhiali, spiegò i fogli e si mise a leggere.
Pirandello lo osservò ancora e gli sembrò lontano, irraggiungibile, chiuso in un’epoca
remota, irri- mediabilmente tramontata. Pensò che al di là dell’esterna ricorrenza, delle for- mali onoranze,
in quel tempo di lacerazioni, di violenza, di menzogna, in quel
tramonto, in quella notte della pietà e dell’intelligenza, il paese, il mondo, avrebbe ancora e più ignorato, offeso
la verità, la poesia dello scrittore. Pensò che quel presente burrascoso e
incerto, sordo alla ritrazione, alla castità della parola, ebbro
d’eloquio vano poteva essere rappresentato solo col sorriso
deso- lato, con l’umorismo straziante, con la parola che incalza e che tortura, la rot- tura delle
forme, delle strutture, la frantumazione delle coscienze, con l’angoscioso smarrimento, il naufragio, la perdita dell’io.
Si tolse gli
occhiali, il vecchio, piegò i fogli e se li mise in tasca.
— Lo leggerò a casa, stanotte — disse — Dormo ormai così poco […]
Aspet- to la morte, a occhi aperti
[…] —.
Chiese:
— Cosa stai
scrivendo, Luigi?
— Ho appena
terminato una commedia
[…] Sei personaggi in cerca d’autore
—
[…]
da L’olivo e l’olivastro, (Vincenzo Consolo) un episodio
reale, storico, vale a dire sull’incontro a Catania, nel 1920, in occasione dei
festeggiamenti per l’ottantesimo compleanno dell’auto- re de I Malavoglia, tra
Verga appunto e Pirandello, in cui quest’ultimo era stato incaricato di pronunciare al Teatro Bellini il discorso ufficiale. Incontro tra due grandi scrittori, fra due mondi.
Pirandello rompe quel cerchio
chiuso, fatale, quel salmodiare monocorde dei vinti verghiani, quel mondo
reale, concreto, quel coro compatto che sulla scena cantava e lamentava la
tragedia. Aveva interrotto quel
canto, Pirandello, aveva disposto su un piano lineare la prosa, logica,
serrata, in una lingua di secondo grado, grammaticale, letteraria regolata. Aveva
fatto irrompere nell’antico
coro dionisiaco il moderno
spirito socratico, quello che Nietzsche
individua nel passaggio dalla tragedia eschilea a quella euripidea. Introduce, Pirandello, la
riflessione, il ragionamento, la dialettica, la tesi e l’antitesi, il processo verbale, il movimento, l’azione mentale, il dibattito come in una immaginaria
aula di un tribunale o una stanza borghese, quella stanza che Giovanni Macchia chiama della «tortura».
Non accetta più la condanna, questo scrittore logico e laico, indaga e
vuol capire le ragioni per cui la sentenza è stata pronunciata. Scompone quel
gruppo uniforme e compatto, quella moltitudine di mortali, quel plurimo attore che è il coro e guarda al singolo
soggetto, all’individuo, alla persona che si fa per- sonaggio. Afferma
che nessuna entità
esterna, metafisica e oscura, nessun
fato ha decretato la condanna, ma che la crisi, il crollo, la catastrofe
non è fuori, ma dentro l’individuo, s’è installata dentro di lui sin dal momento in cui ha preso coscienza del suo stare nel mondo, di far parte dell’umanità e di quella umanità dominata da regole e forme
che si chiama società. Società dominata
e dominante che cerca, attraverso la forma, di vanificare, annullare
la vita, che scava e crea vuoti profondi dentro l’individuo,
che scompone, moltiplica
l’u- nità, impone all’io frantumato, che vuole
scansare la follia o la morte, una maschera.
La catastrofe non può più essere narrata o rappresentata in forma tragica, ma con una prosa «civile»
che nasce da quel sentimento del contrario, da
quel reagente «terribile» che si chiama umorismo.
Vincenzo
Consolo, Ragione e smarrimento, Quaderni d’Italia 7 2002
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