sabato 12 marzo 2016

Vincenzo Consolo: Incontro Verga-Pirandello


“ Nella hall il portiere consegnò un biglietto a Pirandello, che subito lo lesse, si scusò con Niccodemi e si diresse spedito verso il salone. Là trovò Verga, in compagnia del barone Zappalà Asmundo. Il vecchio puntellò le mani sul basto- ne facendo le mosse di volersi alzare, ma Pirandello, svelto, lo fece riaccomo- dare sulla poltrona. Gli si sedette di fronte. I due si guardarono negli occhi, non osarono profferir parola.
—Quando riparte, maestro? — chiese il barone per rompere il silenzio.
—Domani […] — sussurrò Pirandello, e continuò a guardare quel vecchio  in marsina nera, la testa che s’ergeva dal solino inamidato, i folti capelli bian- chi, il viso asciutto, il naso diritto, i baffi arricciati, lo sguardo severo, profondo. Gli sembrò, Verga, la personificazione di don Ippolito Laurentano de I vecchi e i giovani, il principe che non accetta il nuovo tempo, che si richiude a Colimbètra, nell’orgoglio nella follia. Gli sembrò superbo e ostinato come il padre suo. Comparò sé, più giovane di quasi trent’anni, il suo viso con i segni incisi del tormento, il cranio nudo, la barbetta precocemente incanutita, gli occhi sgomenti per il guardare oltre il teatro, oltre lapparenza, comparò la sua con la ferma maschera, quasi pietrificata del nobile vegliardo.
—Perdonami Luigi — disse finalmente Verga. — A te tutta la mia gratitudi- ne, ma dall’Italia ufficiale non voglio niente!
Pirandello abbassò il capo, si sentì in qualche modo complice dell’ufficialità. Si scosse, tirò fuori dalla tasca dei fogli, glieli porse.
                —  Ecco — disse, — ecco il discorso […] L’ha ricopiato per voi mia figlia, Lietta […]
  Ringraziamela tanto […] Ti seguo, Luigi, leggo quanto scrivi […] Ho visto a Milano quella tua commedia […] Come si chiama? Cosi è […]se vi pare completò Pirandello.
  Quel personaggio, la velata […] Che pena! Ripiombarono di nuovo nel silenzio.
Verga inforcò gli occhiali, spiegò i fogli e si mise a leggere. Pirandello lo osservò ancora e gli sembrò lontano, irraggiungibile, chiuso in un’epoca remota, irri- mediabilmente tramontata. Pensò che al di dell’esterna ricorrenza, delle for- mali onoranze, in quel tempo di lacerazioni, di violenza, di menzogna, in quel tramonto, in quella notte della pietà e dell’intelligenza, il paese, il mondo, avrebbe ancora e più ignorato, offeso la verità, la poesia dello scrittore. Pensò che quel presente burrascoso e incerto, sordo alla ritrazione, alla castità della parola, ebbro d’eloquio vano poteva essere rappresentato solo col sorriso deso- lato, con lumorismo straziante, con la parola che incalza e che tortura, la rot- tura delle forme, delle strutture, la frantumazione delle coscienze, con l’angoscioso smarrimento, il naufragio, la perdita dell’io.
Si tolse gli occhiali, il vecchio, piegò i fogli e se li mise in tasca.
  Lo leggerò a casa, stanotte disse Dormo ormai  così  poco […] Aspet- to la morte, a occhi aperti […] —.
Chiese:
  Cosa stai scrivendo, Luigi?
  Ho appena terminato una commedia […] Sei personaggi in cerca d’autore
   
[…]
da L’olivo e l’olivastro, (Vincenzo Consolo) un episodio reale, storico, vale a dire sull’incontro a Catania, nel 1920, in occasione dei festeggiamenti per l’ottantesimo compleanno dell’auto- re de I Malavoglia, tra Verga appunto e Pirandello, in cui quest’ultimo era stato incaricato di pronunciare al Teatro Bellini il discorso ufficiale. Incontro tra due grandi scrittori, fra due mondi.

Pirandello rompe quel cerchio chiuso, fatale, quel salmodiare monocorde dei vinti verghiani, quel mondo reale, concreto, quel coro compatto che sulla scena cantava e lamentava la tragedia. Aveva interrotto quel canto, Pirandello, aveva disposto su un piano lineare la prosa, logica, serrata, in una lingua di secondo grado, grammaticale, letteraria regolata. Aveva fatto irrompere nell’antico coro dionisiaco il moderno spirito socratico, quello che Nietzsche individua nel passaggio dalla tragedia eschilea a quella euripidea. Introduce, Pirandello, la riflessione, il ragionamento, la dialettica, la tesi e l’antitesi, il processo verbale, il movimento, lazione mentale, il dibattito come in una immaginaria aula di un tribunale o una stanza borghese, quella stanza che Giovanni Macchia chiama della «tortura».

Non accetta più la condanna, questo scrittore logico e laico, indaga e vuol capire le ragioni per cui la sentenza è stata pronunciata. Scompone quel gruppo uniforme e compatto, quella moltitudine di mortali, quel plurimo attore che è il coro e guarda al singolo soggetto, all’individuo, alla persona che si fa per- sonaggio. Afferma che nessuna entità esterna, metafisica e oscura, nessun fato ha decretato la condanna, ma che la crisi, il crollo, la catastrofe non è fuori, ma dentro l’individuo, s’è installata dentro di lui sin dal momento in cui ha preso coscienza del suo stare nel mondo, di far parte dell’umanità e di quella umanità dominata da regole e forme che si chiama società. Società dominata e dominante che cerca, attraverso la forma, di vanificare, annullare la vita, che scava e crea vuoti profondi dentro l’individuo, che scompone, moltiplica lu- nità, impone all’io frantumato, che vuole scansare la follia o la morte, una maschera. La catastrofe non può più essere narrata o rappresentata in forma tragica, ma con una prosa «civile» che nasce da quel sentimento del contrario, da quel reagente «terribile» che si chiama umorismo.


Vincenzo Consolo, Ragione e smarrimento, Quaderni d’Italia 7 2002


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