giovedì 31 marzo 2016

Per non smettere di ricordare:l'esperienza di Jean Amery

Jean Améry (Vienna31 ottobre 1912 – Salisburgo17 ottobre 1978), pseudonimo di Hans Chaim Mayer, è stato un saggista di origine austriaca, le cui opere si sono spesso basate su esperienze personali durante la Seconda guerra mondiale
Nato da padre ebreo (morto in guerra nel 1916) e madre cattolica, fu cresciuto nella fede materna. A Vienna Améry dovette poi interrompere i suoi studi universitari a causa di ristrettezze economiche.
Sebbene la famiglia di Améry si fosse estraniata dalle sue origini ebraiche e si fosse quindi assimilata, anche tramite matrimoni misti, tali origini gravitarono comunque nello sviluppo del suo pensiero: "Volevo certo essere anti-nazista, sicuramente, ma di mia libera scelta."
Le Leggi di Norimberga del 1935, il cui testo Améry imparò presto a memoria, lo convinse che la Germania aveva praticamente passato sentenza di morte su tutti gli ebrei. La sua opera Necessity and Impossibility of Being a Jew parla di questo conflitto interiore in merito alla propria identità. Scrive che, mentre la sua identità personale, l'identità della sua passata infanzia, la sentisse come cristiana, Améry si identificasse nondimeno come ebreo in altro senso, il senso di un ebraismo "senza Dio, senza Storia, senza speranza messianica nazionale".
Nel 1938, in seguito all'Anschluss dell'Austria, Améry scappò in Francia e poi in Belgio con la sua moglie ebrea, che lui aveva sposato contro i desideri materni. Venne catturato in Belgio e deportato come cittadino tedesco nel campo di concentramento di Gurs, nel sud della Francia.
Dopo esser scappato dal campo di Gurs e ritornato in Belgio, si unì al movimento della Resistenza, nella ferma convinzione di doversi opporre al nazismo per ragioni politiche e rifiutando di sottostare alle leggi razziali tedesche che facevano di lui un ebreo. In questo senso va letta la sua autodefinizione di "non-non ebreo": un'appartenenza attribuita dall'esterno e polemicamente ribadita.
Coinvolto nella distribuzione di propaganda anti-militare alle truppe tedesche d'occupazione, Améry venne catturato dai nazisti e continuamente torturato in maniera brutale dalla Gestapo presso la loro centrale belga a Fort Breendonk. Dopo che la Gestapo si fu assicurata che Améry non avesse informazioni utili per loro, fu riformato da prigioniero politico a ebreo e spedito ad Auschwitz.
Privo di abilità professionali, Améry venne utilizzato in pesanti lavori di manovalanza forzata, a costruire la fabbrica diI.G. Farben ad Auschwitz III, il campo di lavoro Buna-Monowitz. A causa dell'invasione sovietica nel corso dell'anno successivo, Améry fu trasferito prima a Buchenwald e poi a Bergen-Belsen, dove fu liberato dall'esercito britannico nell'aprile 1945.

Dopo la guerra, il già Hans Mayer cambiò nome in Jean Améry (il cognome anagrammato in francese dal suo originale) per simboleggiare la sua dissociazione dalla cultura tedesca e la sua associazione a quella francese. Rifiutò di pubblicare qualsiasi sua opera in Germania o Austria per molti anni, pubblicando solo in Svizzera. Non descrisse le sue esperienze nei campi di sterminio fino al 1964, quando, incoraggiato dal poeta tedesco Helmut Heißenbüttel, Améry scrisse il libro Jenseits von Schuld und Sühne (letteralmente, "Oltre la colpa e l'espiazione"). Furono forse le sue esplorazioni filosofiche in tale libro - oltre a timori di invecchiamento e salute cagionevole, come anche la demoralizzazione causata da una deteriorante filosofia francese e dalla nuova sinistra politica tedesca - che provocarono un presunto suicidio con sovradosaggio di stupefacenti.
La pubblicazione di At the Mind's Limits - esplorazione stimolante e provocante dell'Olocausto e della natura del Terzo Reich - ha reso Améry uno dei più rispettati scrittori dell'Olocausto. Paragonando i nazisti a un governo del sadismo, Améry afferma che è nella natura del sadico il volere "nullificare il mondo",afferma che la tortura ha formato la vera essenza del Terzo Reich. Altri suoi lavori importanti comprendono On AgingOn Suicide: A Discourse on Voluntary Death.Per un torturatore nazista,
una leggera pressione della mano che impugna l'attrezzo, è sufficiente a trasformare l'altro - e la sua testa, che forse contiene Kant e Hegel, e tutte le nove sinfonie, e Il mondo come volontà e rappresentazione - in un urlante maiale al macello.
Come Primo LeviTadeusz Borowski e molti altri reduci di campi di sterminio e testimoni della Shoà, Améry sopravvisse all'internamento ad Auschwitz per poi togliersi la vita.

Buchenwald:"A ciascuno il suo"

martedì 22 marzo 2016

Pasqua.Sacrificio, ma quando la redenzione?

Pèsach o Pesah (ebraico פסח), detta anche Pasqua ebraica, è una festività ebraica che dura otto giorni (sette nella sola Israele) e che ricorda la liberazione del popolo israelita dall'Egitto e il suo esodo verso la Terra Promessa.

Anche nell'Islam si festeggia la Pasqua.La Pasqua Islamica, l'Eid al-Adha, è la cosiddettafesta del sacrificio: tale celebrazione, infatti, ricorda il sacrificio del profeta Abramo, primo patriarca dell'islam, nei confronti del figlio Isacco.
Dio, infatti, mise alla prova la fedeltà di Abramo ordinandogli di sacrificare Isacco, sui figlio. Abramo obbedisce ma un angelo, scendendo dal cielo, blocca la mano di Abramo che già impugnava il coltello col quale avrebbe ucciso suo figlio.
E' semplice osservare come nel cristianesimo questo mito  si muti appena  , con il sacrificio del figlio di Dio, che è sacrificio apparente, perchè poi  Gesù risorge.
Le sia pur differenti religioni dimostrano le reciproche derivazioni e affinità, è  l’interpretazione politica che  ne corrompe l’identità servendosi dei fanatismi opposti .
il jihad è uno dei comandamenti fondamentali della fede, un obbligo imposto da Allah  a tutti i musulmani mediante la rivelazione. Tale obbligo si fonda sull’universalità della rivelazione musulmana: parola e messaggio di Dio si rivolgono a tutto il genere umano, ed è compito di coloro che l’hanno accettato quello di lottare incessantemente, per convertire o soggiogare coloro che non l’hanno fatto. E’ un obbligo che non conosce limiti di tempo o di spazio, e che deve protrarsi finché il mondo intero non abbia accolto la fede islamica o non si sia sottomesso al potere dello Stato islamico.
Secondo la tradizione musulmana, affinché questo avvenga, il mondo è diviso in due: la Casa dell’Islam (Dar al-Islam), in cui vigono le leggi musulmane e il potere dei governi musulmani, e la Casa della Guerra (Dar al-Harb), il resto del mondo, ancora abitato e governato dagli infedeli. Tra le due vige uno stato di guerra moralmente necessario e legalmente obbligatorio, fino al trionfo finale e inevitabile dell’Islam sulla miscredenza.
 L’assenza della rivoluzione del pensiero, prima ancora che della società, l’assenza di Illuminismo , di rivoluzioni come quella francese , hanno mantenuto la civiltà islamica molto vicino alle  condizioni medievali originarie.
Quanto sta avvenendo in questi anni, mette a dura prova  tutta la buona volontà umanitaria degli occidentali :a Parigi, Londra, Bruxelles ,in ogni grande città, si creano quartieri dove lo spirito della legge è altro dai principi  dell’occidente .
Abbiamo  forze che si oppongono all’integrazione, estranee all’illuminismo, costituite da razzismi opposti, anche di motivazione religiosa, oltreché etnica e politica, sia da parte della popolazione occidentale più retriva, sia di quella islamica più integralista.
E così i sacrifici umani continuano, e non se ne vede il fine speranzoso ,redenzionale..questa  l’amara verità d i questa Pasqua di sangue.


P.S.Quanto sta avvenendo in questi giorni, crea uno sconcerto ancora maggiore. Viene arrestato finalmente Salah,il terrorista che non si era fatto esplodere, e che tuttavia viveva abbastanza palesemente nel quartiere arabo di Bruxelles, dunque non soggetto alle ritorsioni dell'Isis, che come si diceva avrebbe giustiziato il disobbediente. .Arrestato, dice che non ne poteva più, ma che intanto stava preparando altri attentati!!! così, antistress...E di lì a poco, gli attentati esplodono realmente , provenienti probabilmente dallo stesso focolaio di Moelembek...allora, in questo gioco dell'assurdo, quale la logica? Quella che costoro possono fare ormai  il bello e il cattivo tempo?perchè a posteriori si viene a conoscere quasi tutto, ma non scatta la soffiata che può far fermare preventivamente gli attentatori?
Va ormai creata un'organizzazione che preveda, all'interno di questi quartieri divenuti arabi, a Parigi, Bruxelles, Londra, in ogni dove, una polizia locale, araba, che collabori in modo stretto con le autorità di polizia centrali .Se la comunità accetta, dimostra sincerità di collaborare, va rispettata e garantita con tutti i diritti che l'illuminismo europeo ha creato.Chi non ci sta, chi dimostra ostilità,e voglia di garantire piuttosto la delinquenza e il terrorismo,deve ritornare ai paesi di origine.



































































































































































lunedì 21 marzo 2016

Cuba, dal 1959 ad oggi



cuba
Nel mag­gio del 1959 Fidel Castro con­qui­stò il potere a Cuba, che nel 1961 fu dichia­rata uno Stato socialista. Poi ci fu l’inizio delle restrizioni da parte degli Stati Uniti, l’avvicinamento all’Unione Sovietica, la vicenda della Baia dei Porci, il cosiddettoblo­queo (l’embargo che ancora oggi è in vigore), «la crisi dei mis­sili» e le nuove sanzioni dell’allora presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy. La storia di Cuba, più di quella di altri paesi, è fatta di grandi storie e di grandi personaggi. Oggi Cuba è di nuovo sulle prime pagine di tutti i principali giornali internazionali, per un grande evento: qualcosa sta per cambiare nei complicati rapporti con gli Stati Uniti e non solo.
Cuba, dall’inizio
Cuba è un’isola, o meglio un arcipelago di isole. La più grande è lunga e stretta e per la maggior parte è bassa e pianeggiante, con una serie di baie molto profonde. La popolazione originaria si estinse nel Sedicesimo secolo e ora è formata soprattutto da mulatti di origine spagnola. Sconfitta la Spagna, che aveva colonizzato il paese nel 1500, gli Stati Uniti fecero inserire nella Costituzione del nuovo Stato il cosiddetto “emendamento Platt” (dal nome di un senatore statunitense) che istituiva una specie di protettorato statunitense su Cuba. Siamo all’inizio del 1900 e fu allora che gli Stati Uniti stabilirono la base navale di Guantánamo.
I primi decenni dopo l’indipendenza di Cuba furono politicamente molto instabili e segnati da un sempre maggiore malcontento nei confronti degli Stati Uniti e delle loro ingerenze. Nel giro di vent’anni ci furono ben tre colpi di stato militari. Il 4 settembre del 1933 i soldati e i sottufficiali dell’esercito cubano organizzarono la cosiddetta “rivoluzione dei sergenti”: i vertici militari furono cacciati e sostituiti con i sottufficiali e  il sergente Fulgencio Batista divenne capo di stato maggiore dell’esercito. Il golpe fu appoggiato anche dai movimenti e dai partiti di sinistra e Ramón Grau San Martin divenne presidente. L’anno dopo ci fu un nuovo colpo di stato (favorito dagli Stati Uniti) e Batista prese il potere il 15 gennaio del 1934, gestendo direttamente o attraverso presidenti a lui legati la politica cubana fino al 1944. Nel 1952, mentre cresceva l’influenza del Partido Socialista Popular (PSP) e dei sindacati, Batista organizzò un nuovo colpo di stato, prese il potere, instaurò una dittatura e governò in funzione di una rigida conservazione sociale e di una stretta alleanza con gli Stati Uniti (promemoria: stava iniziando la Guerra fredda).
La crisi economica degli anni Cinquanta, le politiche e la corruzione di Batista fecero crescere l’opposizione al regime. Tra gli oppositori c’era Fidel Castro, un giovane avvocato che aveva studiato all’Avana presso i gesuiti. Nel 1952 Castro cercò di opporsi al colpo di Stato in tribunale, denunciando Batista per violazione alla Costituzione: fu un fallimento. Il 26 luglio del 1953, a Santiago di Cuba, Castro guidò l’assalto a un’importante base militare, la Caserma Moncada: fu un altro fallimento. Settanta guerriglieri furono massacrati, ma l’episodio divenne in seguito l’evento che segnò l’inizio della rivoluzione cubana. La data infatti diede il nome al movimento che prese il potere nel 1959, il Movimento del 26 luglio. Dopo l’assalto alla caserma Castro fu condannato a quindici anni e incarcerato. Di fronte al Tribunale che lo processò con l’accusa di “attentato ai Poteri Costituzionali dello Stato e insurrezione”, avvocato di se stesso, Fidel Castro pronunciò un famoso discorso, noto oggi come “La storia mi assolverà”:
«Nascemmo in un paese libero che ci lasciarono i nostri padri, e sprofonderà l’Isola nel mare prima che acconsentiremo ad essere schiavi di qualcuno (…). In quanto a me so che il carcere sarà duro come non lo è mai stato per nessuno, pieno di minacce, di vile e codardo rancore, però non lo temo, così come non temo la furia del tiranno miserabile che ha preso la vita a settanta fratelli miei.
Condannatemi, non importa, la storia mi assolverà».
La rivoluzione
Castro fu liberato prima del tempo da Batista durante un’amnistia. Nel 1955 se ne andò da Cuba, prima negli Stati Uniti e poi in Messico, da dove progettò la rivoluzione. Rientrato clandestinamente a Cuba, Castro diede inizio alla guerriglia di cui facevano parte tra gli altri Ernesto “Che” Guevara, Raúl Castro e Camilo Cienfuegos. Il movimento crebbe sempre di più e ottenne una serie di vittorie contro l’esercito di Batista. La notte di Capodanno del 1959 Fulgencio Batista scappò e l’esercito popolare si diresse verso la capitale senza incontrare alcuna resistenza.
Fidel Castro assunse in gennaio il ruolo di comandante delle forze armate e poi quello di primo ministro: Cuba fu dichiarata Stato socialista il 16 aprile 1961. Castro avviò una politica di riforme radicali e stabilì relazioni diplomatiche con l’URSS. Tutto questo fu visto dagli Stati Uniti come un’ingerenza e un pericolo inaccettabile. Le conseguenze furono una rottura delle relazioni diplomatiche tra i due Stati (nel gennaio del 1961 l’ambasciata americana a L’Avana venne chiusa) e ci fu un tentativo (fallito) di rovesciare Castro con l’invasione della Baia dei Porci da parte di alcuni esuli cubani, sostenuti dagli Stati Uniti e addestrati dalla CIA. Ci fu soprattutto l’embargo da parte degli Stati Uniti, che costrinse l’isola a dipendere economicamente dall’Unione Sovietica, verso cui si era già avvicinata.

giovedì 17 marzo 2016

Giugno'44:il rastrellamento nazifascista in Val Grande

La Val Grande è stata testimone di uno dei più drammatici episodi della Resistenza all’occupazione nazista e al fascismo: il rastrellamento del giugno 1944. 17.000 uomini (15.000 tedeschi e 2000 fascisti) attaccano le formazioni partigiane (450/500 uomini in tutto) insediate sui monti della Val Grande e della vicina Valle Intrasca. Perché tanta sproporzione di forze? Forse perché i nazisti sopravvalutano la forza numerica dei partigiani, forse perché vogliono essere sicuri di raggiungere l’obiettivo che si sono proposti: distruggere le formazioni partigiane operanti tra quelle montagne nel quadro di una più vasta operazione tesa a colpire la resistenza nel Piemonte nord-orientale, dove è particolarmente attiva. Le operazioni proseguiranno infatti anche nel basso Cusio e in Valsesia nella prima metà di luglio e si concluderanno nel biellese il 26 dello stesso mese: ma in questi casi il risultato per i tedeschi sarà decisamente negativo.

Le formazioni partigiane presenti sui monti del Verbano sono tre: la VALDOSSOLA, che opera in Val Grande, la CESARE BATTISTI, che è installata tra Pian Vadà e il Passo Folungo, e la GIOVINE ITALIA, che agisce tra Miazzina e il Pian Cavallone. In tutto sono 450/500 partigiani, di cui 350 armati, soprattutto di moschetti e fucili ’91.
La Valdossola è nata dalla fusione di un piccolo gruppo proveniente dalla bassa Valle Antigorio, guidato da Mario Muneghina, con un gruppo di giovani riuniti intorno a Dionigi Superti. La Valdossola arriverà a contare circa 300 uomini; Superti ne è il comandante, Muneghina (il “capitano Mario”) il numero due.
La Cesare Battisti (70/80 uomini) è nata per iniziativa di tre sottotenenti dei bersaglieri, Arca (Armando Calzavara, della provincia di Treviso), Marco (Giuseppe Perozzi, di Urbino) e Selva (Enzo Piazzotta, della provincia di Varese), che si sono stabiliti in Valle Intrasca dopo un’esperienza partigiana finita male nel pinerolese subito dopo l’armistizio.
La Giovine Italia inizia la sua attività dopo l’8 settembre nella zona di Miazzina. Dal marzo 1944 la comanda l’operaio comunista cremonese  Alfredo Labadini, chiamato Guido il Monco (ha perso una mano in seguito a un incidente di lavoro). La banda utilizza talvolta l’alberghetto del Pian Cavallone, ma il comando si installerà al vicino rifugio. Alla fine di maggio 1944 conta più di ottanta uomini. In quello stesso mese entreranno nella formazione due tenenti degli alpini: il verbanese Gaetano Garzoli (Rolando), che ne assumerà il comando, e Mario Flaim di Rovereto.

LA CRONACA DEL RASTRELLAMENTO

Il pomeriggio dell’11 giugno una colonna motorizzata tedesca sale da Rovegro verso Cicogna. Nei pressi della galleria che precede Ponte Casletto si imbatte nei partigiani che difendono la postazione e inizia lo scontro a fuoco. Verso sera i tedeschi si ritirano. Lo scontro riprende il mattino successivo. Due autoblindo cercano di attraversare il ponte che però viene fatto saltare dai partigiani. La stessa sorte tocca al ponticello sulla mulattiera che proviene da Cossogno, ma non alla passerella della condotta dell’acqua.
Nel frattempo una colonna tedesca proveniente da Mergozzo, dopo aver scavalcato il Monte Faié, attacca Corte Buè che viene abbandonata dai partigiani. Lo scontro si sposta intorno al Ponte di Velina, che poi verrà fatto saltare nel tentativo di fermare l’avanzata tedesca.
A Ponte Casletto, verso mezzogiorno, la situazione peggiora. I tedeschi costringono i partigiani ad arretrare, riescono ad attraversare la passerella dell’acqua e iniziano a salire verso Cicogna. Le case di Velina sono colpite dai mortai e dalle mitragliatrici piazzati a Corte Buè: Mario Muneghina decide la ritirata in Val Pogallo e manda a chiamare gli uomini che si trovano al comando di Orfalecchio (Superti è assente, perché si è recato in Svizzera per contattare gli Alleati). Verso sera i partigiani del Valdossola (circa 280 uomini) con una cinquantina di prigionieri iniziano a salire verso Corte del Bosco.
Il mattino successivo (dopo aver lasciato una ventina di prigionieri chiusi in una stalla) la colonna riparte e all’alba si trova sopra l’Alpe Prà, dove vengono individuati da un ricognitore nemico. I tedeschi, che intanto hanno occupato Cicogna, iniziano il tiro dei mortai. I partigiani, senza scendere a Pogallo, iniziano a traversare verso l’Alpe Brusà, dove si fermeranno per la notte (l’alpigiano di Busarasca si è rifiutato di ospitarli). Un gruppo di uomini è inviato a Pogallo per controllare l’avanzata dei tedeschi; anche i feriti vengono inviati a Pogallo: da qui saranno portati nella zona ancora tranquilla del Pian Cavallone, dove si trovano gli uomini della Giovine Italia.

Intanto a Orfalecchio, nella giornata del 12, è rientrato Superti che viene informato dai pochi rimasti. Il comandante fa richiamare gli uomini che si trovano all’Arca e a In la Piana e insieme (sono una trentina di uomini) traversano a Velina, dove giungono all’alba del 13. Da qui salgono a Corte del Bosco e a sera ripartono per Pogallo, dove arrivano all’alba del 14. Superti viene informato della situazione e manda due uomini all’alpe Brusà per ordinare a Muneghina di scendere a Pogallo per rientrare in Val Grande (ha concordato con gli Alleati un lancio di viveri e armi su In La Piana). Muneghina (informato da una pattuglia che in Val Cannobina non ci sono nemici e convinto che la Val Grande sia ormai solo una trappola) si rifiuta di seguire Superti: il Valdossola si spacca in due gruppi.

Gli aerei tedeschi sparano sugli uomini nascosti nel bosco intorno all’Alpe Brusà. Poi il tempo si guasta e la visibilità ridotta consente agli uomini di Muneghina di iniziare la marcia verso la Bocchetta di Terza per scendere in Val Cannobina. Sono 200 partigiani (un gruppo ha deciso di seguire Superti) e una trentina di prigionieri: all’alba del 15 giugno si fermano in un faggeto del vallone di Finero. Il tempo è pessimo e anche la situazione è drammatica, perché i tedeschi hanno raggiunto il fondovalle e la popolazione, terrorizzata, non aiuta i partigiani che non conoscono la zona.
A sera, col cielo tornato sereno, gli uomini di Muneghina riprendono il cammino; alcuni non tengono il passo e un gruppo di 20/25 uomini perde il contatto con il grosso della colonna: tenteranno di rientrare in Val Grande attraverso Scaredi e la Val Portaiola.
La colonna di Muneghina giunge presso Finero; a Pian di Sale incrocia i tedeschi: alle 3,30, inizia una tremenda battaglia. Alla fine, mentre il tempo si guasta di nuovo, Muneghina ordina agli uomini di disperdersi per meglio sottrarsi alla caccia nemica. Alcuni finiranno oltre confine, alcuni saranno uccisi dai tedeschi, altri catturati. Mario Muneghina, con una quindicina di uomini, arriva all’Alpe Polunnia (Val Cannobina), dove si scontra ancora con i tedeschi. Per alcuni giorni il gruppetto (sono rimasti in dieci) vagherà intorno al Monte Torriggia e tra le rocce del Gridone. La sera del 20 giungeranno presso gli alpeggi di Orasso dove verranno accolti e rifocillati da una contadina del luogo.
Il gruppo che si era staccato dalla colonna nel vallone di Finero sta intanto cercando di rientrare in Val Grande, ma deve fare i conti con la presenza ormai massiccia dei tedeschi; all’alba del 18 questi uomini arrivano sotto la Laurasca e tentano di traversare verso l’Alpe Scaredi; qui però ci sono già i tedeschi e allora il gruppo, sotto la pioggia, prova a salire alla Bocchetta di Scaredi. Anche qui ci sono nemici: i partigiani si arrendono. Consegnati ai fascisti della Muti, verranno portati a Malesco, torturati e poi trasportati a Intra.

Al mattino del 15 giugno, Superti e i suoi (in tutto 70/80 uomini) lasciano Pogallo Alta e nel  tardo pomeriggio sono alla Bocchetta di Campo. Il mattino successivo scendono all’Alpe Campo e all’Alpe Portaiola: gli alpigiani li informano che nessun reparto tedesco è passato di lì. Passano da In la Piana e arrivano all’Arca che è quasi il tramonto. Qui trovano un pacchetto di sigarette buttato da poco: è tedesco. All’alba del 17 una pattuglia di partigiani si imbatte nei tedeschi. Superti ordina quindi la ritirata lungo il canalone tra la Ganna Grossa e il Pedum. Si fermeranno a 1800 metri, presso il nevaio terminale. Qualcuno è ferito. Piove. Resteranno in quel punto per due giorni, ma i tedeschi non se ne andranno, anzi hanno ormai esteso l’occupazione agli alpeggi dell’alta valle.
All’alba del 20 giugno gli uomini d Superti si rimettono in moto: la prima parte del percorso sotto le strette del Casè e Cima Pedum è massacrante, il terreno è impervio e privo di sentieri. C’è nebbia e questo impedisce ai tedeschi di vederli. Arrivano di nuovo all’Alpe Campo e poi nei pressi dell’Alpe Portaiola, dove si preparano per passare il torrente. Sono uomini stremati dalla fatica e dalla fame. Di colpo la nebbia si alza. I tedeschi piazzati all’Alpe Portaiola li vedono e iniziano a sparare. E’ una strage: non meno di trenta partigiani muoiono. I superstiti si disperdono alla disperata ricerca della salvezza.
Un gruppo di nove uomini (guidati da Mario Morandi e dai fratelli Alfonso e Bruno Vigorelli) sale verso l’Alpe Riazzoli, nei pressi della quale precipita e muore Bruno Vigorelli. Possono muoversi solo di notte. All’alba del 22 giungono all’Alpe Casarolo, dove l’alpigiano ha già accolto quattro uomini scampati alla strage dell’Alpe Portaiola. I tedeschi li raggiungono. I partigiani si arrendono (in tre riescono a fuggire e raggiungeranno la salvezza a Colloro) e verranno fucilati sul posto.
Della colonna di Superti sopravvivono solo altri dieci/dodici uomini, tra cui lo stesso Superti che è riuscito a raggiungere l’Alpe Crot (alta Val Gabbio) e poi, allo stremo delle forze, sarà trovato dagli alpigiani di Premosello.

Il 13 giugno i partigiani della Giovine Italia ricevono qualche notizia di ciò che sta accadendo dai feriti e dai loro accompagnatori che provengono da Pogallo, ma non riscono ad avere chiara la situazione. Il 14 i fascisti della legione Leonessa salgono oltre Miazzina ma sono respinti dai partigiani; lo stesso accade a un reparto tedesco sotto il Pizzo Pernice. Il 15 giugno la battaglia riprende tra la Colma e il Pian Cavallone. Gli attacchi dei tedeschi sono respinti per tre volte, poi dal campo sportivo di Intra inizieranno ad arrivare i colpi del mortaio da 149 e le sorti dello scontro cambieranno. All’arrivo della notte la battaglia è finita: i partigiani devono ritirarsi. Flaim si porterà al Pian Vadà per tenere i contatti con la Cesare Battisti; Guido e altri uomini, tra cui i feriti e i disarmati rientrano nel fondovalle per tenersi buoni per un’altra volta; Rolando con pochi altri salirà alla Marona per contrastare l’avanzata tedesca. 

All’alba del 16 un’autocolonna tedesca parte da Colle e, lungo la strada militare, avanza verso le posizioni della Cesare Battisti al Pian Vadà. Il comandante Arca ha potuto disporre la difesa, ma le forze tedesche sono preponderanti.
Intanto un reparto tedesco, dal Pian Cavallone, marcia verso il Pizzo Marona, dove si trovano Rolando e pochi altri uomini della Giovine Italia. Il primo attacco nemico è respinto. Poi arrivano i colpi del mortaio da 149, ma anche l’attacco del pomeriggio è respinto. In serata, dal Vadà, arriva Flaim e al mattino del 17 altri partigiani della Cesare Battisti. Alcuni scendono in Val Marona, altri rimangono. E’ di nuovo battaglia, ma a mezzogiorno tutto sarà finito. La cappelletta verrà fatta saltare. Undici corpi verranno trovati sotto la cima, verso la Val Pogallo. Di Rolando si perderà ogni traccia.

Il bilancio del rastrellamento è tragico. Tra i partigiani si contano circa 300 morti. 150/160 sono caduti in combattimento; 150 sono stati eliminati tra il 17 e il 27 giugno dopo essere stati catturati e, quasi sempre, picchiati e torturati (vedi la cartina e le immagini). Tra i civili ci sono 7 vittime. Le perdite del nemico sono valutabili in 200/250 morti e almeno altrettanti feriti. Ingenti danni sono stati provocati alle case, agli alpeggi e ai rifugi (vedi le immagini).

Nel mese di luglio, dopo il rastrellamento, i superstiti della Cesare Battisti (40 uomini) si trovano a Rocca di Scareno; quelli della Giovine Italia (60 uomini), guidati da Guido, si installano a Miazzina. Mario Muneghina, tornato dalla Val Cannobina, si porta di nuovo all’Alpe Velina con gli altri superstiti della Valdossola. Qui li raggiunge Superti. Le divergenze tra i due sono ormai insanabili e Muneghina ne trae le conseguenze, dando vita, con una trentina di uomini, ad una nuova formazione, la Valgrande Martire. Superti, con un’altra trentina di uomini, si porta all’Alpe Crot per ricostituire la Valdossola su posizioni diverse dall’attendismo originario. Alla fine del mese la Giovine Italia confluirà nella Valgrande Martire. All’inizio di luglio, nel retroterra di Cannero, si costituisce, per iniziativa di due ufficiali milanesi (Filippo Frassati e Nicola Lazzari), una nuova formazione, la Giuseppe Perotti, di ispirazione monarchica. La Valgrande Martire entrerà nella 2a divisione Garibaldi come 85a brigata. Queste formazioni parteciperanno attivamente alle successive fasi della lotta partigiana nel Verbano e nell’Ossola.