mercoledì 13 maggio 2015

23 maggio:incontro con lo scrittore



Mario Santagostini è nato a Milano, dove ha sempre vissuto, nel 1951. Fra le sue raccolte di poesie ricordiamo: Uscire di Città (1972, 2012) Come rosata linea (1981), L'Olimpiade del '40 (1994), L'idea del bene (2001), Versi del malanimo (2007). Ha inoltre scritto il saggio Manuale del poeta (1988) e I poeti di ventanni Ha tradotto dal latino e dal tedesco. Ha collaborato e collabora alle pagine letterarie e artistiche di vari quotidiani e periodici.Quest'anno ha vinto il premio di Letteratura Città di Como con la raccolta Felicità senza soggetto (Mondadori).


VERSI DEL MALANIMO – 2007
. C'è un'inquietudine tagliente e ansiosa, aspra e risentita, nella meditazione in versi che sa offrirci questo nuovo libro di Mario Santagostini, un libro raffinato nella sua composizione e nella sua pronuncia, quanto ricco di umori circolanti e a volte anche espressivamente violento nella rappresentazione di una condizione umana smangiata e residuale. Quella, a conti fatti, dell'uomo d'oggi, carico di incertezze, nella sua provvisorietà priva di slanci verticali. Gli scenari entro i quali si muove il soggetto lirico di questo libro sfumano in una relatività totale, dove il passato e la memoria si insinuano nel presente e nella sua coscienza, parlandogli da un altrove indefinito, da una sorta di limbo dove si affacciano figure parentali che il tempo rende più remote o ammutolisce. Santagostini, da sempre, ragiona nella sua poesia sul tempo, sul suo mistero e sulla sua attività incessante, che erode e corrompe la materia friabile di ogni esistenza. Tanto che il mondo gli si presenta, forse beckettianamente, come un paesaggio popolato da "poveri morti e poveri rottami". Ed è qui che agisce il "rancore purissimo, nitido", di chi osserva le cose e i destini - il proprio destino - senza possibilità alcuna di modificarne i percorsi essenziali; senza capirne le ragioni, ma ancora capace di forti soprassalti come di "strane euforie nervose". Santagostini realizza il suo percorso - franto, scheggiato, impervio - in un teatro di città dove si muovono vari personaggi, figure di ogni genere: "bestie ammaestrate", "l'idiota di casa", angeli e trafficanti, il padre nel suo "stupore per la vita", la madre che "raspa sottoterra e si crede / in volo, in aria". Ne deriva un insieme di straordinaria energia espressiva, tra densità e improvvise soste di rarefazione, vivo di una sua concretezza materica come di intense accensioni visionarie.



Felicità senza soggetto
di Mario Santagostini

Milano, Mondadori, 2014

In principio, la "felicità senza soggetto" cui allude il titolo dell'ultima opera di Mario Santagostini coincideva, o almeno così si potrebbe credere, con una precisa utopia politica; un azzeramento del sé in un'idea storica più grande, omnicomprensiva, universale: "E io ero, come tanti, un comunista". Una felicità più sperata che reale, o meglio materiale ("E pensavo a un avvenire / senza il lavoro, a quando i corpi / ci sarebbero serviti a poco, quasi a niente"), destinata a essere disattesa storicamente, al punto che il soggetto in questione, oggi "ex comunista" e più res cogitans che mai, arriva a chiedersi "di cosa è fatto / un corpo, se merita / soltanto la vita, o già altro".
Se una felicità si profila, in questa raccolta, non è più umana ma, all'opposto, appartiene alle cose, alle "merci" ("Eppure, il solo vedere merci / ci metteva euforia / perché erano loro stesse, a essere felici."); a quelle merci feticcio di un capitalismo già in declino che hanno effettivamente sancito l'annullamento dell'individuo in termini di reificazione: "E qualcuno si chiedeva / se il loro riciclo / non fosse l'ennesima, / rassegnata forma di resurrezione. / Non molto diversa dalla mia, aggiungeva".
Da questa premessa, che poi sarebbe la lucida constatazione e successiva 'messa in pagina' del crollo delle illusioni giovanili, traggono giustificazione i nodi nevralgici del libro: l'ossessione intellettuale per la materialità dell'esistenza e un'inquadratura poetica che fa della distanza spaziotemporale la cifra distintiva di questi testi.
Declinata con un atteggiamento speculativo di ricerca inesausta e inesauribile, a cui tuttavia non sono estranei certi accenti di parodica rivelazione  ("Ecce materia"), la nuda "materia" attraversa come un
 fil rouge le maglie del libro e si erge ad assoluta protagonista, ovvero a oggetto privilegiato delle interrogazioni/osservazioni/elucubrazioni dell'io poetante: "Credo che certe specie / non pensano più la materia, / nemmeno quella di cui sono fatte". In questa prospettiva, la poesia di Santagostini si appropria di una visione leopardiana della realtà, per cui a "chi continua a parlare di miracoli" si contrappongono "le piante, / e qualche bestia", forti dell'unica verità che riescono ad esperire: "In loro, nessuna meraviglia. / Nemmeno sembrano vive". E proprio la lezione del grande recanatese (mai citato esplicitamente da Santagostini a differenza di altre figure poetiche ed artistiche presenti nel libro) sorregge alcuni momenti tra i più alti di tutta l'opera, come in Io, nel 1970 dove il lessico dell'Infinito si dispiega in tutta la sua forza evocativa e filosofica: "Che pena, viene / da dire, per la semplicità dell'infinito / quando sente tutta / la sua paura per l'inanimato". Un materialismo, questo di Santagostini come già quello di Leopardi (sebbene a dispetto di qualche dogmatico esegeta), che non si riduce a una fin troppo facile etichetta svuotata di senso, ma che riconosce nella materia-mater, pure se nella forma della negazione, il principio (e la fine) di tutte le cose: "Forse, la materia / non sa ancora dare / il meglio di se stessa: l'infinito. / Non è fatta per questo".

Così la felicità cui Santagostini anela si presenta come appannaggio esclusivo della "pietra", correlativo oggettivo per antonomasia dell'"inanimato", nonché emblema situato al polo opposto rispetto alla parola: "Ho pensato che le pietre / sanno fare a meno della vita. / Mi chiedo fino a quando. / Forse, il mondo esiste solo / per dare loro la parola, un giorno". Non è quindi senza significato che la pietra, nelle battute conclusive di quest'opera, coincida con un "silenzio" assoluto e regressivo che annichilisce quella capacità verbale che è, in ultima istanza, espressione storica di un determinato soggetto: "E il mio italiano torna a uno stato / non solo di silenzio, / ma si pietrifica. E la pietra tace. / Non è giusto, ma tace".
Il movimento retrospettivo che anima questa poesia non è però dettato da uno slancio irrazionale quanto piuttosto da una dichiarata disillusione nei confronti della linearità di un progresso storico che ha tradito ogni logica di bene. Ciò induce il poeta a ritornare sui propri passi, tanto che in
 Ancora l'idea del bene, autocitazione dell'opera del 2001, si legge:

Del dopoguerra, ricordo poco.
Ma invasi dal sogno
d’una forma abitativa allo stato purissimo,
si tiravano su palazzi,
rimesse, hangar. La speranza
era di vederli, un giorno,
svuotati. Lo spirito, quello
di chi già abita una Gerusalemme
celeste, città della
resurrezione senza morti.
Si assiste impotenti, nello svolgimento delle varie sezioni del libro, a una progressiva disintegrazione materica e a una conseguente meccanizzazione dell'umano, come ad esempio nella sequenza che trae ispirazione dall'opera futurista di Sironi: "Io raffiguravo gente / che non ha mai amato il corpo. / [...] / Per questo, in certe mie periferie / c'è posto solo per operai / che rimpiangono di non essere / fatti di ferro, o roba / derottamata". A questa altezza, i confini dell'umano e quelli della 'civiltà delle macchine' si confondono a tal punto che i ruoli e le funzioni si invertono; se "idrofori, radar, megafoni / e radio a galena" diventano strumenti "sensibilissimi / al vento, a quei suoni. / Fino a una semieuforia fatua, / già quasi umana", viceversa la "politica", campo d'azione attinente al bene collettivo, andando incontro al proprio fallimento ("Qui, anche la politica ha fallito"), "non dà risposte. / Non ha più nulla di umano".
L'unica prospettiva di fuga, allora, contrariamente a quanto dichiarato dal titolo, si delinea nel ritorno ad un "io" (così la terza sezione della raccolta) ormai lontano, e perciò quasi estraneo, nello spazio ("Sono tornato a Cinisello, / una domenica afosa"; "Queste erano le mie zone / di allora: viale Sarca, le strade / vicino alla Pirelli, Sesto San Giovanni") come nel tempo: "Pensavo: non amo me stesso, /amo questi anni, / la loro felicità senza soggetto"; a questo proposito, è rivelatoria la forma standardizzata dei titoli di alcuni testi che ricorda neanche troppo vagamente le note didascaliche sul retro di foto un po' ingiallite:
 Io, appendice. In piazza Tirana, forse nel '63; Io, nel 1970. Premessa; Io, nel 1970; Io, nel 1985. Ma pensando altri anni.
Il confronto con il presente è impari: "Una volta, sognavo / qualcosa di meglio / della materia, della vita. / Ora non sono in grado / d'aspettarmi nulla, l'eterno / poteva essere diverso". Nell'ultimo raggruppamento di poesie,Postcreatura, l'avverbio di luogo qui, ricorrente in più di una circostanza, decreta la frattura abissale tra il passato dell'utopia comunista (della felicità senza soggetto) e l'opaco e mostruoso presente che non lascia nemmeno prefigurare un qualsiasi abbozzo di futuro: "Io credo che per certe specie / la vita è qualcosa / di basso, e ripugnante. / Per altre, nemmno esiste. / [...] / Qui, anche il vero ti evita. / Come se vivesse"; "Qui, c'è chi si chiede ancora come / è stato un corpo / cosa avrebbe fatto per sollevarsi in aria"; "Ho amato la materia come un mio simile / e continuo a farlo. / Poi, un creare onnivoro / e sfasato mi ha portato qui, dove anche Dio esiste"; "Certo, qui una volta si creava, / poi si è passati al vivere. / Adesso, aspettiamo". Non può esistere, in questa realtà di esseri che sono già post-, oltre l'umano, nessuna forma di felicità pura proprio perché il soggetto che era da trascesendere è stato annientato in ogni sua dimensione e assorbito dalle cose, dalle merci. Un soggetto forte, cioè, come quello che Santagostini, dietro lo schermo del Petrarca, è ancora capace di ricordare: "Un surplus d'universo, nemmeno / il più dolente: questo / è stato il mio Canzoniere, in fondo". Di ricordare, e dunque di ricreare grazie alla materia della parola poetica.



1 commento:

  1. E' un poeta a me sconosciuto..
    Sono però contentissima di poter partecipare a una sua conferenza perchè leggendo gli appunti qui sopra che lo riguardano, mi è sembrato di capire che mi piacerà e interesserà molto!

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