Mario Santagostini è nato a Milano,
dove ha sempre vissuto, nel 1951. Fra le sue raccolte di poesie
ricordiamo: Uscire di Città (1972,
2012) Come rosata linea (1981), L'Olimpiade del '40 (1994), L'idea del bene (2001), Versi del malanimo (2007). Ha inoltre scritto il
saggio Manuale del poeta (1988) e I poeti di
ventanni Ha tradotto dal latino e dal tedesco. Ha collaborato e
collabora alle pagine letterarie e artistiche di vari quotidiani e
periodici.Quest'anno ha vinto il premio di Letteratura Città di Como con la
raccolta Felicità senza soggetto (Mondadori).
VERSI DEL MALANIMO – 2007
. C'è un'inquietudine tagliente
e ansiosa, aspra e risentita, nella meditazione in versi che sa offrirci questo
nuovo libro di Mario Santagostini, un libro raffinato nella sua composizione e
nella sua pronuncia, quanto ricco di umori circolanti e a volte anche
espressivamente violento nella rappresentazione di una condizione umana
smangiata e residuale. Quella, a conti fatti, dell'uomo d'oggi, carico di
incertezze, nella sua provvisorietà priva di slanci verticali. Gli scenari
entro i quali si muove il soggetto lirico di questo libro sfumano in una
relatività totale, dove il passato e la memoria si insinuano nel presente e
nella sua coscienza, parlandogli da un altrove indefinito, da una sorta di
limbo dove si affacciano figure parentali che il tempo rende più remote o
ammutolisce. Santagostini, da sempre, ragiona nella sua poesia sul tempo, sul
suo mistero e sulla sua attività incessante, che erode e corrompe la materia
friabile di ogni esistenza. Tanto che il mondo gli si presenta, forse
beckettianamente, come un paesaggio popolato da "poveri morti e poveri
rottami". Ed è qui che agisce il "rancore purissimo, nitido", di
chi osserva le cose e i destini - il proprio destino - senza possibilità alcuna
di modificarne i percorsi essenziali; senza capirne le ragioni, ma ancora
capace di forti soprassalti come di "strane euforie nervose".
Santagostini realizza il suo percorso - franto, scheggiato, impervio - in un
teatro di città dove si muovono vari personaggi, figure di ogni genere:
"bestie ammaestrate", "l'idiota di casa", angeli e
trafficanti, il padre nel suo "stupore per la vita", la madre che
"raspa sottoterra e si crede / in volo, in aria". Ne deriva un
insieme di straordinaria energia espressiva, tra densità e improvvise soste di
rarefazione, vivo di una sua concretezza materica come di intense accensioni
visionarie.
Felicità senza soggetto
di Mario Santagostini
Milano, Mondadori, 2014
di Mario Santagostini
Milano, Mondadori, 2014
In principio, la
"felicità senza soggetto" cui allude il titolo dell'ultima opera di
Mario Santagostini coincideva, o almeno così si potrebbe credere, con una
precisa utopia politica; un azzeramento del sé in un'idea storica più grande,
omnicomprensiva, universale: "E io ero, come tanti, un comunista".
Una felicità più sperata che reale, o meglio materiale ("E pensavo a un
avvenire / senza il lavoro, a quando i corpi / ci sarebbero serviti a poco,
quasi a niente"), destinata a essere disattesa storicamente, al punto che
il soggetto in questione, oggi "ex comunista" e più res cogitans che mai, arriva a chiedersi "di cosa
è fatto / un corpo, se merita / soltanto la vita, o già altro".
Se una felicità si
profila, in questa raccolta, non è più umana ma, all'opposto, appartiene alle
cose, alle "merci" ("Eppure, il solo vedere merci / ci metteva
euforia / perché erano loro stesse, a essere felici."); a quelle merci
feticcio di un capitalismo già in declino che hanno effettivamente sancito
l'annullamento dell'individuo in termini di reificazione: "E qualcuno si
chiedeva / se il loro riciclo / non fosse l'ennesima, / rassegnata forma di
resurrezione. / Non molto diversa dalla mia, aggiungeva".
Da questa premessa, che
poi sarebbe la lucida constatazione e successiva 'messa in pagina' del crollo
delle illusioni giovanili, traggono giustificazione i nodi nevralgici del
libro: l'ossessione intellettuale per la materialità dell'esistenza e
un'inquadratura poetica che fa della distanza spaziotemporale la cifra
distintiva di questi testi.
Declinata con un atteggiamento speculativo di ricerca inesausta e inesauribile, a cui tuttavia non sono estranei certi accenti di parodica rivelazione ("Ecce materia"), la nuda "materia" attraversa come un fil rouge le maglie del libro e si erge ad assoluta protagonista, ovvero a oggetto privilegiato delle interrogazioni/osservazioni/elucubrazioni dell'io poetante: "Credo che certe specie / non pensano più la materia, / nemmeno quella di cui sono fatte". In questa prospettiva, la poesia di Santagostini si appropria di una visione leopardiana della realtà, per cui a "chi continua a parlare di miracoli" si contrappongono "le piante, / e qualche bestia", forti dell'unica verità che riescono ad esperire: "In loro, nessuna meraviglia. / Nemmeno sembrano vive". E proprio la lezione del grande recanatese (mai citato esplicitamente da Santagostini a differenza di altre figure poetiche ed artistiche presenti nel libro) sorregge alcuni momenti tra i più alti di tutta l'opera, come in Io, nel 1970 dove il lessico dell'Infinito si dispiega in tutta la sua forza evocativa e filosofica: "Che pena, viene / da dire, per la semplicità dell'infinito / quando sente tutta / la sua paura per l'inanimato". Un materialismo, questo di Santagostini come già quello di Leopardi (sebbene a dispetto di qualche dogmatico esegeta), che non si riduce a una fin troppo facile etichetta svuotata di senso, ma che riconosce nella materia-mater, pure se nella forma della negazione, il principio (e la fine) di tutte le cose: "Forse, la materia / non sa ancora dare / il meglio di se stessa: l'infinito. / Non è fatta per questo".
Così la felicità cui Santagostini anela si presenta come appannaggio esclusivo della "pietra", correlativo oggettivo per antonomasia dell'"inanimato", nonché emblema situato al polo opposto rispetto alla parola: "Ho pensato che le pietre / sanno fare a meno della vita. / Mi chiedo fino a quando. / Forse, il mondo esiste solo / per dare loro la parola, un giorno". Non è quindi senza significato che la pietra, nelle battute conclusive di quest'opera, coincida con un "silenzio" assoluto e regressivo che annichilisce quella capacità verbale che è, in ultima istanza, espressione storica di un determinato soggetto: "E il mio italiano torna a uno stato / non solo di silenzio, / ma si pietrifica. E la pietra tace. / Non è giusto, ma tace".
Il movimento retrospettivo che anima questa poesia non è però dettato da uno slancio irrazionale quanto piuttosto da una dichiarata disillusione nei confronti della linearità di un progresso storico che ha tradito ogni logica di bene. Ciò induce il poeta a ritornare sui propri passi, tanto che in Ancora l'idea del bene, autocitazione dell'opera del 2001, si legge:
Declinata con un atteggiamento speculativo di ricerca inesausta e inesauribile, a cui tuttavia non sono estranei certi accenti di parodica rivelazione ("Ecce materia"), la nuda "materia" attraversa come un fil rouge le maglie del libro e si erge ad assoluta protagonista, ovvero a oggetto privilegiato delle interrogazioni/osservazioni/elucubrazioni dell'io poetante: "Credo che certe specie / non pensano più la materia, / nemmeno quella di cui sono fatte". In questa prospettiva, la poesia di Santagostini si appropria di una visione leopardiana della realtà, per cui a "chi continua a parlare di miracoli" si contrappongono "le piante, / e qualche bestia", forti dell'unica verità che riescono ad esperire: "In loro, nessuna meraviglia. / Nemmeno sembrano vive". E proprio la lezione del grande recanatese (mai citato esplicitamente da Santagostini a differenza di altre figure poetiche ed artistiche presenti nel libro) sorregge alcuni momenti tra i più alti di tutta l'opera, come in Io, nel 1970 dove il lessico dell'Infinito si dispiega in tutta la sua forza evocativa e filosofica: "Che pena, viene / da dire, per la semplicità dell'infinito / quando sente tutta / la sua paura per l'inanimato". Un materialismo, questo di Santagostini come già quello di Leopardi (sebbene a dispetto di qualche dogmatico esegeta), che non si riduce a una fin troppo facile etichetta svuotata di senso, ma che riconosce nella materia-mater, pure se nella forma della negazione, il principio (e la fine) di tutte le cose: "Forse, la materia / non sa ancora dare / il meglio di se stessa: l'infinito. / Non è fatta per questo".
Così la felicità cui Santagostini anela si presenta come appannaggio esclusivo della "pietra", correlativo oggettivo per antonomasia dell'"inanimato", nonché emblema situato al polo opposto rispetto alla parola: "Ho pensato che le pietre / sanno fare a meno della vita. / Mi chiedo fino a quando. / Forse, il mondo esiste solo / per dare loro la parola, un giorno". Non è quindi senza significato che la pietra, nelle battute conclusive di quest'opera, coincida con un "silenzio" assoluto e regressivo che annichilisce quella capacità verbale che è, in ultima istanza, espressione storica di un determinato soggetto: "E il mio italiano torna a uno stato / non solo di silenzio, / ma si pietrifica. E la pietra tace. / Non è giusto, ma tace".
Il movimento retrospettivo che anima questa poesia non è però dettato da uno slancio irrazionale quanto piuttosto da una dichiarata disillusione nei confronti della linearità di un progresso storico che ha tradito ogni logica di bene. Ciò induce il poeta a ritornare sui propri passi, tanto che in Ancora l'idea del bene, autocitazione dell'opera del 2001, si legge:
Del dopoguerra, ricordo
poco.
Ma invasi dal sogno
d’una forma abitativa
allo stato purissimo,
si tiravano su palazzi,
rimesse, hangar. La speranza
era di vederli, un
giorno,
svuotati. Lo spirito,
quello
di chi già abita una
Gerusalemme
celeste, città della
resurrezione senza
morti.
Si assiste impotenti,
nello svolgimento delle varie sezioni del libro, a una progressiva
disintegrazione materica e a una conseguente meccanizzazione dell'umano, come
ad esempio nella sequenza che trae ispirazione dall'opera futurista di Sironi:
"Io raffiguravo gente / che non ha mai amato il corpo. / [...] / Per
questo, in certe mie periferie / c'è posto solo per operai / che rimpiangono di
non essere / fatti di ferro, o roba / derottamata". A questa altezza, i
confini dell'umano e quelli della 'civiltà delle macchine' si confondono a tal
punto che i ruoli e le funzioni si invertono; se "idrofori, radar, megafoni
/ e radio a galena" diventano strumenti "sensibilissimi / al vento, a
quei suoni. / Fino a una semieuforia fatua, / già quasi umana", viceversa
la "politica", campo d'azione attinente al bene collettivo, andando
incontro al proprio fallimento ("Qui, anche la politica ha fallito"),
"non dà risposte. / Non ha più nulla di umano".
L'unica prospettiva di fuga, allora, contrariamente a quanto dichiarato dal titolo, si delinea nel ritorno ad un "io" (così la terza sezione della raccolta) ormai lontano, e perciò quasi estraneo, nello spazio ("Sono tornato a Cinisello, / una domenica afosa"; "Queste erano le mie zone / di allora: viale Sarca, le strade / vicino alla Pirelli, Sesto San Giovanni") come nel tempo: "Pensavo: non amo me stesso, /amo questi anni, / la loro felicità senza soggetto"; a questo proposito, è rivelatoria la forma standardizzata dei titoli di alcuni testi che ricorda neanche troppo vagamente le note didascaliche sul retro di foto un po' ingiallite: Io, appendice. In piazza Tirana, forse nel '63; Io, nel 1970. Premessa; Io, nel 1970; Io, nel 1985. Ma pensando altri anni.
Il confronto con il presente è impari: "Una volta, sognavo / qualcosa di meglio / della materia, della vita. / Ora non sono in grado / d'aspettarmi nulla, l'eterno / poteva essere diverso". Nell'ultimo raggruppamento di poesie,Postcreatura, l'avverbio di luogo qui, ricorrente in più di una circostanza, decreta la frattura abissale tra il passato dell'utopia comunista (della felicità senza soggetto) e l'opaco e mostruoso presente che non lascia nemmeno prefigurare un qualsiasi abbozzo di futuro: "Io credo che per certe specie / la vita è qualcosa / di basso, e ripugnante. / Per altre, nemmno esiste. / [...] / Qui, anche il vero ti evita. / Come se vivesse"; "Qui, c'è chi si chiede ancora come / è stato un corpo / cosa avrebbe fatto per sollevarsi in aria"; "Ho amato la materia come un mio simile / e continuo a farlo. / Poi, un creare onnivoro / e sfasato mi ha portato qui, dove anche Dio esiste"; "Certo, qui una volta si creava, / poi si è passati al vivere. / Adesso, aspettiamo". Non può esistere, in questa realtà di esseri che sono già post-, oltre l'umano, nessuna forma di felicità pura proprio perché il soggetto che era da trascesendere è stato annientato in ogni sua dimensione e assorbito dalle cose, dalle merci. Un soggetto forte, cioè, come quello che Santagostini, dietro lo schermo del Petrarca, è ancora capace di ricordare: "Un surplus d'universo, nemmeno / il più dolente: questo / è stato il mio Canzoniere, in fondo". Di ricordare, e dunque di ricreare grazie alla materia della parola poetica.
L'unica prospettiva di fuga, allora, contrariamente a quanto dichiarato dal titolo, si delinea nel ritorno ad un "io" (così la terza sezione della raccolta) ormai lontano, e perciò quasi estraneo, nello spazio ("Sono tornato a Cinisello, / una domenica afosa"; "Queste erano le mie zone / di allora: viale Sarca, le strade / vicino alla Pirelli, Sesto San Giovanni") come nel tempo: "Pensavo: non amo me stesso, /amo questi anni, / la loro felicità senza soggetto"; a questo proposito, è rivelatoria la forma standardizzata dei titoli di alcuni testi che ricorda neanche troppo vagamente le note didascaliche sul retro di foto un po' ingiallite: Io, appendice. In piazza Tirana, forse nel '63; Io, nel 1970. Premessa; Io, nel 1970; Io, nel 1985. Ma pensando altri anni.
Il confronto con il presente è impari: "Una volta, sognavo / qualcosa di meglio / della materia, della vita. / Ora non sono in grado / d'aspettarmi nulla, l'eterno / poteva essere diverso". Nell'ultimo raggruppamento di poesie,Postcreatura, l'avverbio di luogo qui, ricorrente in più di una circostanza, decreta la frattura abissale tra il passato dell'utopia comunista (della felicità senza soggetto) e l'opaco e mostruoso presente che non lascia nemmeno prefigurare un qualsiasi abbozzo di futuro: "Io credo che per certe specie / la vita è qualcosa / di basso, e ripugnante. / Per altre, nemmno esiste. / [...] / Qui, anche il vero ti evita. / Come se vivesse"; "Qui, c'è chi si chiede ancora come / è stato un corpo / cosa avrebbe fatto per sollevarsi in aria"; "Ho amato la materia come un mio simile / e continuo a farlo. / Poi, un creare onnivoro / e sfasato mi ha portato qui, dove anche Dio esiste"; "Certo, qui una volta si creava, / poi si è passati al vivere. / Adesso, aspettiamo". Non può esistere, in questa realtà di esseri che sono già post-, oltre l'umano, nessuna forma di felicità pura proprio perché il soggetto che era da trascesendere è stato annientato in ogni sua dimensione e assorbito dalle cose, dalle merci. Un soggetto forte, cioè, come quello che Santagostini, dietro lo schermo del Petrarca, è ancora capace di ricordare: "Un surplus d'universo, nemmeno / il più dolente: questo / è stato il mio Canzoniere, in fondo". Di ricordare, e dunque di ricreare grazie alla materia della parola poetica.
E' un poeta a me sconosciuto..
RispondiEliminaSono però contentissima di poter partecipare a una sua conferenza perchè leggendo gli appunti qui sopra che lo riguardano, mi è sembrato di capire che mi piacerà e interesserà molto!