lunedì 25 maggio 2015
Siracusa,Teatro greco-Ifigenia in Aulide
Tutto ruota attorno ad una storia,tre dee che si contendono la palma della più bella, e la vincitrice che rapisce Elena, moglie del re di Sparta, per darla a Paride, figlio di Priamo,re d'Ilio.
Gli Achei sono pronti a scatenare la vendetta, ma la partenza delle navi è impedita dagli dei, che vogliono il sacrificio di Ifigenia la figlia di Agamennone, il re di Micene e condottiero greco.
Così,per riavere la donna sedotta da ridare a Menelao, fra gli Atridi ci dovrebbe essere i l sacrificio di una vergine in famiglia! Ha dell'incredibile questa storia, se non fosse che bisogna guardare indietro, ad un misfatto di questa stirpe maledetta, quando lo stesso Agamennone, nella sua ubris, pensò di sfidare la dea Artemide al tiro con l'arco!
Ifigenia, sul punto di essere sacrificata, sembra dissolversi nel nulla, viene salvata dall dea, che la prende per sè(anche se la madre, Clitennestra, si domanda se questo evento sia vero, se no n sia una falsa consolazione..perchè Euripide è fra i nuovi pensatori, che infondono dubbi negli ateniesi a proposito delle divinità!)...ma la storia continuerà ,in Tauride, dove Ifigenia anni dopo rincontrerà i l fuggiasco Oreste, suo fratello, proveniente dalla tragedia che ha colpito la famiglia (altre storie...).
Ciò si vede in Siracusa, città di luce e di mare, la più grande città della Magna Grecia...che ancora conserva le orme in certo senso vive di quel passato...
lunedì 18 maggio 2015
Settecentocinquantanni di Dante Alighieri
Domenicale del Sole 24 ore, 17 maggio 2015
Dante Alighieri si sarebbe molto
meravigliato se gli avessero detto che nel 2015 gli italiani avrebbero
festeggiato il suo settecento-cinquantesimo compleanno.
Non che avesse dubbi circa il proprio
valore, o circa la durata della propria fama: non che non sapesse di
essere un genio, e non che questa consapevolezza fosse temperata dalla
modestia. Chi l’ha letto conosce bene le sue candide dichiarazioni di
eccellenza, come quando nella Vita nova promette di dire un giorno di Beatrice «quello che mai non fue detto d’alcuna»; o come quando nel De vulgari eloquentia porta i suoi propri versi ad esempio di come dev’essere fatta una poesia in volgare; o come quando nel Convivio si assume il compito di illuminare «coloro che sono in tenebre e in oscuritade», e per farlo commenta per pagine e pagine tre sue
canzoni, con la stessa serietà e con lo stesso rigore con cui si
potevano commentare la Bibbia o Aristotele. E non pensava soltanto di
possedere un talento fuori del comune, pensava anche che gli fosse stato
riservato un destino fuori del comune, e cioè che la sua
esistenza personale trascorresse all’ombra di eventi e alla presenza di
enti la cui importanza andava molto al di là della sua semplice persona:
nella canzone Amor che movi spiega che il suo amore è fatto
della stessa materia di quell’Amore universale che governa l’universo,
che è un raggio della luce divina; nella canzone Tre donne intorno al cor mi son venute
spiega che il suo esilio è la prova di un generale imbarbarimento del
mondo, il tramonto di tutte le virtù che un tempo erano in onore:
Carità, Giustizia, Temperanza, Generosità; e la Commedia, naturalmente, è da cima a fondo il percorso di un iniziato, di un uomo toccato dalla grazia.
Era anche convinto che i suoi libri
sarebbero stati letti per molto tempo dopo la sua morte. Al suo antenato
Cacciaguida dice di non voler essere «al vero timido amico», cioè di
voler dire tutta la verità, altrimenti – teme – finirà per perdere il
rispetto di «coloro / che questo tempo chiameranno antico» (noi); e a
Cacciaguida stesso fa dire che la sua (di lui, Dante) vita «s’infutura»,
entra nel futuro superando i limiti dell’esistenza umana. E
probabilmente pensava anche (con ragione) che la Commedia sarebbe stata non solo letta ma studiata, interpretata, commentata. Nel decimo del Paradiso
apostrofa così il lettore: «Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco, /
dietro pensando a ciò che si preliba, / s’esser vuoi lieto assai prima
che stanco». Il banco. Dante (lo ha osservato Armando Petrucci)
immaginava il suo lettore seduto a un banco come quelli su cui lui e i
suoi contemporanei studiavano i testi sacri o i filosofi classici e
cristiani: pensava alla Commedia come a un libro che doveva stare sullo stesso scaffale del De consolatione philosophiae, o dell’Eneide, non su quello del Lancelot.
Perché allora Dante si sarebbe
meravigliato di queste celebrazioni? Perché Dante viveva in un mondo in
cui a scuola e all’università non si studiavano i poeti, e certamente
non i poeti volgari. È vero che Boccaccio legge ed espone la Commedia di Dante a mezzo secolo di distanza dalla sua morte; ed è vero che le letture pubbliche della Commedia
prendono piede già nel Quattrocento, e poi diventano una specie di rito
nel Cinquecento, coll’Accademia Fiorentina. Ma all’università si
studiavano altri libri, di epoche più remote, e quel poco spazio che si
dava alle sententiae modernorum toccava a eruditi come Pietro
Lombardo o Tommaso d’Aquino, non ai trovatori o agli stilnovisti.
Perciò, per quanto alta fosse l’opinione che Dante aveva di se stesso,
certo non avrebbe immaginato che, settecentocinquant’anni dopo la sua
nascita, «Dante Alighieri» e «Letteratura italiana» sarebbero stati
quasi sinonimi, in molte università del mondo; che un discreto numero di
esseri umani si sarebbero fatti chiamare dantisti, cioè
specialisti di… lui, e che questa bizzarra specialità avrebbe permesso a
molti di loro di campare più che dignitosamente, di farsi la casa, di
cambiare la macchina a colpi di edizioni/commenti alla Commedia, alle Rime, alla Quaestio de aqua et terra;
e che ogni anno sulla sua vita e sui suoi libri si sarebbero pubblicati
articoli, libri, tesi di laurea e di dottorato a centinaia, a migliaia,
e quattro o cinque riviste dedicate interamente a lui, e poi spettacoli
teatrali, reading, videogiochi, Greenaway, Dan Brown, Gassman, Benigni, un indotto da far impallidire la Fiat…
E si sarebbe meravigliato anche per
un’altra ragione, ancora più elementare. Perché Dante non pensava che il
mondo sarebbe durato fino all’anno 2015. Da buon cristiano, sapeva che
un bel giorno il mondo era stato creato e che un bel giorno sarebbe
finito (un bel giorno, non un brutto giorno: perché sarebbe stato il
preludio alla vita eterna). Da Agostino aveva imparato che il mondo
aveva un po’ più di seimila anni, che erano già trascorse cinque delle
sue sei età, ciascuna lunga più o meno ottocento anni, e che lui viveva
nella sesta, l’età del Figlio, e non ce ne sarebbe stata un’altra. Per
questo nel Convivio scrive che «noi siamo già nell’ultima etade
del secolo, e attendemo veracemente la consumazione del celestiale
movimento» (perché, come spiega Tommaso in un passo raggelante della Summa contra gentiles,
anche i cieli si fermeranno, per far sì che cessi la vita sulla terra:
«Ad hoc igitur quod in inferioribus cesset generatio et corruptio,
oportet quod etiam motus coeli cesset»); e per questo, nell’Empireo, fa
dire a Beatrice «Vedi nostra città quant’ella gira; /vedi li nostri
scanni sì ripieni, / che poca gente più ci si disira», cioè ‘Guarda
quanto è grande la nostra città celeste, vedi come quasi tutti i nostri
scanni sono occupati, segno del fatto che pochi altri beati devono
arrivare’ – gli eletti, destinati alla candida rosa, sono già quasi
tutti seduti al loro posto, il mondo sta per finire.
È solo letteratura? No, in realtà, se
per esempio un benedettino del secolo XII, Raul di Flavigny, s’indignava
all’idea che qualcuno potesse non credere al fatto che
l’Apocalissi era alle porte: «Oggi lo stato della Chiesa è tale che è
possibile vedere gente che, quando si conversa con lei a proposito della
persecuzione finale e della venuta dell’Anticristo, sembra credere
appena alla sua venuta oppure, se crede, tenta di dimostrarvi, nelle sue
fantasticherie, che ciò avverrà tra molti secoli». No, non era solo
letteratura: ci credevano.
Invece, a tre quarti di millennio
dall’anno 1265, il mondo è ancora in piedi, gli esseri umani se la
passano infinitamente meglio di come se la passavano al tempo di Dante, e
sappiamo che «fantasticherie» non sono i dubbi degli scettici intorno
all’Apocalissi prossima ventura ma i timori di Agostino, Dante e Raul di
Flavigny. E all’università, al posto di glossare le glosse di Pietro
Lombardo, si legge la Commedia. Chi ha detto che il progresso non esiste?
Claudio Giunta
giovedì 14 maggio 2015
mercoledì 13 maggio 2015
23 maggio:incontro con lo scrittore
Mario Santagostini è nato a Milano,
dove ha sempre vissuto, nel 1951. Fra le sue raccolte di poesie
ricordiamo: Uscire di Città (1972,
2012) Come rosata linea (1981), L'Olimpiade del '40 (1994), L'idea del bene (2001), Versi del malanimo (2007). Ha inoltre scritto il
saggio Manuale del poeta (1988) e I poeti di
ventanni Ha tradotto dal latino e dal tedesco. Ha collaborato e
collabora alle pagine letterarie e artistiche di vari quotidiani e
periodici.Quest'anno ha vinto il premio di Letteratura Città di Como con la
raccolta Felicità senza soggetto (Mondadori).
VERSI DEL MALANIMO – 2007
. C'è un'inquietudine tagliente
e ansiosa, aspra e risentita, nella meditazione in versi che sa offrirci questo
nuovo libro di Mario Santagostini, un libro raffinato nella sua composizione e
nella sua pronuncia, quanto ricco di umori circolanti e a volte anche
espressivamente violento nella rappresentazione di una condizione umana
smangiata e residuale. Quella, a conti fatti, dell'uomo d'oggi, carico di
incertezze, nella sua provvisorietà priva di slanci verticali. Gli scenari
entro i quali si muove il soggetto lirico di questo libro sfumano in una
relatività totale, dove il passato e la memoria si insinuano nel presente e
nella sua coscienza, parlandogli da un altrove indefinito, da una sorta di
limbo dove si affacciano figure parentali che il tempo rende più remote o
ammutolisce. Santagostini, da sempre, ragiona nella sua poesia sul tempo, sul
suo mistero e sulla sua attività incessante, che erode e corrompe la materia
friabile di ogni esistenza. Tanto che il mondo gli si presenta, forse
beckettianamente, come un paesaggio popolato da "poveri morti e poveri
rottami". Ed è qui che agisce il "rancore purissimo, nitido", di
chi osserva le cose e i destini - il proprio destino - senza possibilità alcuna
di modificarne i percorsi essenziali; senza capirne le ragioni, ma ancora
capace di forti soprassalti come di "strane euforie nervose".
Santagostini realizza il suo percorso - franto, scheggiato, impervio - in un
teatro di città dove si muovono vari personaggi, figure di ogni genere:
"bestie ammaestrate", "l'idiota di casa", angeli e
trafficanti, il padre nel suo "stupore per la vita", la madre che
"raspa sottoterra e si crede / in volo, in aria". Ne deriva un
insieme di straordinaria energia espressiva, tra densità e improvvise soste di
rarefazione, vivo di una sua concretezza materica come di intense accensioni
visionarie.
Felicità senza soggetto
di Mario Santagostini
Milano, Mondadori, 2014
di Mario Santagostini
Milano, Mondadori, 2014
In principio, la
"felicità senza soggetto" cui allude il titolo dell'ultima opera di
Mario Santagostini coincideva, o almeno così si potrebbe credere, con una
precisa utopia politica; un azzeramento del sé in un'idea storica più grande,
omnicomprensiva, universale: "E io ero, come tanti, un comunista".
Una felicità più sperata che reale, o meglio materiale ("E pensavo a un
avvenire / senza il lavoro, a quando i corpi / ci sarebbero serviti a poco,
quasi a niente"), destinata a essere disattesa storicamente, al punto che
il soggetto in questione, oggi "ex comunista" e più res cogitans che mai, arriva a chiedersi "di cosa
è fatto / un corpo, se merita / soltanto la vita, o già altro".
Se una felicità si
profila, in questa raccolta, non è più umana ma, all'opposto, appartiene alle
cose, alle "merci" ("Eppure, il solo vedere merci / ci metteva
euforia / perché erano loro stesse, a essere felici."); a quelle merci
feticcio di un capitalismo già in declino che hanno effettivamente sancito
l'annullamento dell'individuo in termini di reificazione: "E qualcuno si
chiedeva / se il loro riciclo / non fosse l'ennesima, / rassegnata forma di
resurrezione. / Non molto diversa dalla mia, aggiungeva".
Da questa premessa, che
poi sarebbe la lucida constatazione e successiva 'messa in pagina' del crollo
delle illusioni giovanili, traggono giustificazione i nodi nevralgici del
libro: l'ossessione intellettuale per la materialità dell'esistenza e
un'inquadratura poetica che fa della distanza spaziotemporale la cifra
distintiva di questi testi.
Declinata con un atteggiamento speculativo di ricerca inesausta e inesauribile, a cui tuttavia non sono estranei certi accenti di parodica rivelazione ("Ecce materia"), la nuda "materia" attraversa come un fil rouge le maglie del libro e si erge ad assoluta protagonista, ovvero a oggetto privilegiato delle interrogazioni/osservazioni/elucubrazioni dell'io poetante: "Credo che certe specie / non pensano più la materia, / nemmeno quella di cui sono fatte". In questa prospettiva, la poesia di Santagostini si appropria di una visione leopardiana della realtà, per cui a "chi continua a parlare di miracoli" si contrappongono "le piante, / e qualche bestia", forti dell'unica verità che riescono ad esperire: "In loro, nessuna meraviglia. / Nemmeno sembrano vive". E proprio la lezione del grande recanatese (mai citato esplicitamente da Santagostini a differenza di altre figure poetiche ed artistiche presenti nel libro) sorregge alcuni momenti tra i più alti di tutta l'opera, come in Io, nel 1970 dove il lessico dell'Infinito si dispiega in tutta la sua forza evocativa e filosofica: "Che pena, viene / da dire, per la semplicità dell'infinito / quando sente tutta / la sua paura per l'inanimato". Un materialismo, questo di Santagostini come già quello di Leopardi (sebbene a dispetto di qualche dogmatico esegeta), che non si riduce a una fin troppo facile etichetta svuotata di senso, ma che riconosce nella materia-mater, pure se nella forma della negazione, il principio (e la fine) di tutte le cose: "Forse, la materia / non sa ancora dare / il meglio di se stessa: l'infinito. / Non è fatta per questo".
Così la felicità cui Santagostini anela si presenta come appannaggio esclusivo della "pietra", correlativo oggettivo per antonomasia dell'"inanimato", nonché emblema situato al polo opposto rispetto alla parola: "Ho pensato che le pietre / sanno fare a meno della vita. / Mi chiedo fino a quando. / Forse, il mondo esiste solo / per dare loro la parola, un giorno". Non è quindi senza significato che la pietra, nelle battute conclusive di quest'opera, coincida con un "silenzio" assoluto e regressivo che annichilisce quella capacità verbale che è, in ultima istanza, espressione storica di un determinato soggetto: "E il mio italiano torna a uno stato / non solo di silenzio, / ma si pietrifica. E la pietra tace. / Non è giusto, ma tace".
Il movimento retrospettivo che anima questa poesia non è però dettato da uno slancio irrazionale quanto piuttosto da una dichiarata disillusione nei confronti della linearità di un progresso storico che ha tradito ogni logica di bene. Ciò induce il poeta a ritornare sui propri passi, tanto che in Ancora l'idea del bene, autocitazione dell'opera del 2001, si legge:
Declinata con un atteggiamento speculativo di ricerca inesausta e inesauribile, a cui tuttavia non sono estranei certi accenti di parodica rivelazione ("Ecce materia"), la nuda "materia" attraversa come un fil rouge le maglie del libro e si erge ad assoluta protagonista, ovvero a oggetto privilegiato delle interrogazioni/osservazioni/elucubrazioni dell'io poetante: "Credo che certe specie / non pensano più la materia, / nemmeno quella di cui sono fatte". In questa prospettiva, la poesia di Santagostini si appropria di una visione leopardiana della realtà, per cui a "chi continua a parlare di miracoli" si contrappongono "le piante, / e qualche bestia", forti dell'unica verità che riescono ad esperire: "In loro, nessuna meraviglia. / Nemmeno sembrano vive". E proprio la lezione del grande recanatese (mai citato esplicitamente da Santagostini a differenza di altre figure poetiche ed artistiche presenti nel libro) sorregge alcuni momenti tra i più alti di tutta l'opera, come in Io, nel 1970 dove il lessico dell'Infinito si dispiega in tutta la sua forza evocativa e filosofica: "Che pena, viene / da dire, per la semplicità dell'infinito / quando sente tutta / la sua paura per l'inanimato". Un materialismo, questo di Santagostini come già quello di Leopardi (sebbene a dispetto di qualche dogmatico esegeta), che non si riduce a una fin troppo facile etichetta svuotata di senso, ma che riconosce nella materia-mater, pure se nella forma della negazione, il principio (e la fine) di tutte le cose: "Forse, la materia / non sa ancora dare / il meglio di se stessa: l'infinito. / Non è fatta per questo".
Così la felicità cui Santagostini anela si presenta come appannaggio esclusivo della "pietra", correlativo oggettivo per antonomasia dell'"inanimato", nonché emblema situato al polo opposto rispetto alla parola: "Ho pensato che le pietre / sanno fare a meno della vita. / Mi chiedo fino a quando. / Forse, il mondo esiste solo / per dare loro la parola, un giorno". Non è quindi senza significato che la pietra, nelle battute conclusive di quest'opera, coincida con un "silenzio" assoluto e regressivo che annichilisce quella capacità verbale che è, in ultima istanza, espressione storica di un determinato soggetto: "E il mio italiano torna a uno stato / non solo di silenzio, / ma si pietrifica. E la pietra tace. / Non è giusto, ma tace".
Il movimento retrospettivo che anima questa poesia non è però dettato da uno slancio irrazionale quanto piuttosto da una dichiarata disillusione nei confronti della linearità di un progresso storico che ha tradito ogni logica di bene. Ciò induce il poeta a ritornare sui propri passi, tanto che in Ancora l'idea del bene, autocitazione dell'opera del 2001, si legge:
Del dopoguerra, ricordo
poco.
Ma invasi dal sogno
d’una forma abitativa
allo stato purissimo,
si tiravano su palazzi,
rimesse, hangar. La speranza
era di vederli, un
giorno,
svuotati. Lo spirito,
quello
di chi già abita una
Gerusalemme
celeste, città della
resurrezione senza
morti.
Si assiste impotenti,
nello svolgimento delle varie sezioni del libro, a una progressiva
disintegrazione materica e a una conseguente meccanizzazione dell'umano, come
ad esempio nella sequenza che trae ispirazione dall'opera futurista di Sironi:
"Io raffiguravo gente / che non ha mai amato il corpo. / [...] / Per
questo, in certe mie periferie / c'è posto solo per operai / che rimpiangono di
non essere / fatti di ferro, o roba / derottamata". A questa altezza, i
confini dell'umano e quelli della 'civiltà delle macchine' si confondono a tal
punto che i ruoli e le funzioni si invertono; se "idrofori, radar, megafoni
/ e radio a galena" diventano strumenti "sensibilissimi / al vento, a
quei suoni. / Fino a una semieuforia fatua, / già quasi umana", viceversa
la "politica", campo d'azione attinente al bene collettivo, andando
incontro al proprio fallimento ("Qui, anche la politica ha fallito"),
"non dà risposte. / Non ha più nulla di umano".
L'unica prospettiva di fuga, allora, contrariamente a quanto dichiarato dal titolo, si delinea nel ritorno ad un "io" (così la terza sezione della raccolta) ormai lontano, e perciò quasi estraneo, nello spazio ("Sono tornato a Cinisello, / una domenica afosa"; "Queste erano le mie zone / di allora: viale Sarca, le strade / vicino alla Pirelli, Sesto San Giovanni") come nel tempo: "Pensavo: non amo me stesso, /amo questi anni, / la loro felicità senza soggetto"; a questo proposito, è rivelatoria la forma standardizzata dei titoli di alcuni testi che ricorda neanche troppo vagamente le note didascaliche sul retro di foto un po' ingiallite: Io, appendice. In piazza Tirana, forse nel '63; Io, nel 1970. Premessa; Io, nel 1970; Io, nel 1985. Ma pensando altri anni.
Il confronto con il presente è impari: "Una volta, sognavo / qualcosa di meglio / della materia, della vita. / Ora non sono in grado / d'aspettarmi nulla, l'eterno / poteva essere diverso". Nell'ultimo raggruppamento di poesie,Postcreatura, l'avverbio di luogo qui, ricorrente in più di una circostanza, decreta la frattura abissale tra il passato dell'utopia comunista (della felicità senza soggetto) e l'opaco e mostruoso presente che non lascia nemmeno prefigurare un qualsiasi abbozzo di futuro: "Io credo che per certe specie / la vita è qualcosa / di basso, e ripugnante. / Per altre, nemmno esiste. / [...] / Qui, anche il vero ti evita. / Come se vivesse"; "Qui, c'è chi si chiede ancora come / è stato un corpo / cosa avrebbe fatto per sollevarsi in aria"; "Ho amato la materia come un mio simile / e continuo a farlo. / Poi, un creare onnivoro / e sfasato mi ha portato qui, dove anche Dio esiste"; "Certo, qui una volta si creava, / poi si è passati al vivere. / Adesso, aspettiamo". Non può esistere, in questa realtà di esseri che sono già post-, oltre l'umano, nessuna forma di felicità pura proprio perché il soggetto che era da trascesendere è stato annientato in ogni sua dimensione e assorbito dalle cose, dalle merci. Un soggetto forte, cioè, come quello che Santagostini, dietro lo schermo del Petrarca, è ancora capace di ricordare: "Un surplus d'universo, nemmeno / il più dolente: questo / è stato il mio Canzoniere, in fondo". Di ricordare, e dunque di ricreare grazie alla materia della parola poetica.
L'unica prospettiva di fuga, allora, contrariamente a quanto dichiarato dal titolo, si delinea nel ritorno ad un "io" (così la terza sezione della raccolta) ormai lontano, e perciò quasi estraneo, nello spazio ("Sono tornato a Cinisello, / una domenica afosa"; "Queste erano le mie zone / di allora: viale Sarca, le strade / vicino alla Pirelli, Sesto San Giovanni") come nel tempo: "Pensavo: non amo me stesso, /amo questi anni, / la loro felicità senza soggetto"; a questo proposito, è rivelatoria la forma standardizzata dei titoli di alcuni testi che ricorda neanche troppo vagamente le note didascaliche sul retro di foto un po' ingiallite: Io, appendice. In piazza Tirana, forse nel '63; Io, nel 1970. Premessa; Io, nel 1970; Io, nel 1985. Ma pensando altri anni.
Il confronto con il presente è impari: "Una volta, sognavo / qualcosa di meglio / della materia, della vita. / Ora non sono in grado / d'aspettarmi nulla, l'eterno / poteva essere diverso". Nell'ultimo raggruppamento di poesie,Postcreatura, l'avverbio di luogo qui, ricorrente in più di una circostanza, decreta la frattura abissale tra il passato dell'utopia comunista (della felicità senza soggetto) e l'opaco e mostruoso presente che non lascia nemmeno prefigurare un qualsiasi abbozzo di futuro: "Io credo che per certe specie / la vita è qualcosa / di basso, e ripugnante. / Per altre, nemmno esiste. / [...] / Qui, anche il vero ti evita. / Come se vivesse"; "Qui, c'è chi si chiede ancora come / è stato un corpo / cosa avrebbe fatto per sollevarsi in aria"; "Ho amato la materia come un mio simile / e continuo a farlo. / Poi, un creare onnivoro / e sfasato mi ha portato qui, dove anche Dio esiste"; "Certo, qui una volta si creava, / poi si è passati al vivere. / Adesso, aspettiamo". Non può esistere, in questa realtà di esseri che sono già post-, oltre l'umano, nessuna forma di felicità pura proprio perché il soggetto che era da trascesendere è stato annientato in ogni sua dimensione e assorbito dalle cose, dalle merci. Un soggetto forte, cioè, come quello che Santagostini, dietro lo schermo del Petrarca, è ancora capace di ricordare: "Un surplus d'universo, nemmeno / il più dolente: questo / è stato il mio Canzoniere, in fondo". Di ricordare, e dunque di ricreare grazie alla materia della parola poetica.
martedì 5 maggio 2015
La scuola si ferma
Cortei
in sette città per lo sciopero generale della scuola. I sindacati: "Mai
cortei così affollati". I nodi del potere ai presidi, della scelta dei
centomila precari da assumere, del meccanismo di finanziamento di
pubbliche e private.
Sette le manifestazioni principali organizzate dai tre sindacati confederali con Gilda e Snals: Aosta, Milano, Roma, Bari, Catania, Palermo, Cagliari. L'ala Cobas - Usb, Unicobas, Anief e sigle minori - ha manifestato in dodici città (tra cui Torino). L'ala Cobas sciopererà anche domani e martedì 12 per tentare di boicottare i test Invalsi.
Disponibilità ad ascoltare gli insegnanti è arrivata dal presidente del Senato, Piero Grasso: "C'è la disponibilità del Senato a sentire i docenti che oggi hanno scioperato. Perché per la buona scuola - ha aggiunto - serve un confronto positivo per arrivare a soluzioni possibilmente condivise. La scuola è dei docenti e dei ragazzi ed è il futuro del Paese". Il Presidente del Senato ha citato don Milani facendo riferimento "all'arte di camminare per mano. I docenti ed i ragazzi nella vita rappresentano una scuola di libertà e anche quella di scioperare". "La repressione - ha aggiunto - non è sufficiente in terra come questa infestate dalle mafie perché esse fioriscono dove la cultura manca. Gli insegnanti in questo percorso di tutela della legalità hanno un ruolo fondamentale".
Grande adesione. I più partecipati a Roma e Milano, dove a fianco di insegnanti, personale della scuola e studenti, hanno sfilato i segretari generali dei sindacati confederali e autonomi e molti esponenti politici, anche del Pd. Stefano Fassina, che ha manifestato nella Capitale, è stato oggetto di un'accesa contestazione da parte di alcuni insegnanti. Tra i primi commenti politici, quello del parlamentare Pd Pippo Civati, in piazza a Roma, secondo il quale "questo è uno sciopero non politico, perché la politica non rappresenta più nessuno, perché il Pd ha tradito i suoi impegni elettorali e ha fatto una riforma della scuola lontanissima dalla nostra cultura politica".
Il corteo è partito da piazza della Repubblica, preceduto da alcuni flash mob degli studenti: "siamo in centomila", hanno detto gli organizzatori. Corteo anche a Bolzano, dove oggi è atteso il premier Renzi per un incontro di partito. Sua moglie, insegnante a Pontassieve, questa mattina sta svolgendo invece regolarmente le sue lezioni.
Non scioperano diversi presidi, invece, esplicitamente favorevoli al disegno di legge del governo, "La buona scuola". Il primo blitz, all'alba, degli studenti universitari davanti al ministero dell'Istruzione.
La ministra dell'Istruzione Stefania Giannini ancora non si capacita di uno sciopero così ampio contro il suo operato. Le ragioni «la lasciano perplessa» ha detto. E »il governo è coeso su una riforma innovativa». Mentre riferendosi agli sgravi fiscali per le famiglie che mandano i figli alle scuole paritarie, ha affermato che "equivale a riconoscere la libertà educativa". Una riforma già bocciata nella consultazione online dove il 60% dei docenti ha respinto l'abolizione degli scatti di anzianità a favore di quelli di merito. Ma Giannini-Renzi fanno finta di nulla. Per la segretaria Cgil Camusso tale «riforma» privilegia i più ricchi e divide i precari. Il governo non è in condizione di assumere i precari a settembre. Per Giannini, anche Camusso »non ha letto il Ddb>. A questo punto, considerata l'ampiezza del fronte contro Renzi, è lecito chiedersi se il governo, e il Pd, abbiano letto la riforma che intendono approvare
sabato 2 maggio 2015
Oltraggio al 1 maggio
Oltraggio al 1 maggio
Che l'Expo sia una fiera del Capitale globale,con tutto quanto di abominevole comporta, è un fatto.
Un altro fatto sarebbe che manifestazioni di protesta proponessero disegni ,molteplici, variati a seconda delle differenti disposiizioni, di un'altra vita possibile, veramente più civile, più rispettosa,più solidale.
Un altro fatto ,che all'interno di queste manifestazioni compaia come sempre un di-segno opposto, nichilista, barbarico, non di vita più umanamente organizzata,ma di terrore e morte-
L'ultimo fatto, che di Black bloc,come Isis ecc.l'informazione su capi,modalità, luoghi di raccolta ,finanziamenti ecc. sia al più soltanto accennata, e che simili gruppi puntualmente colpiscano, da decenni, pressochè indisturbati...
E non per nazionalismo, ma per amore delle nostre città e della nostra terra, così come di quelle che amiamo nel mondo intero ,notare con sofferenza come da un millennio e mezzo la Penisola sia terra d'invasione e saccheggio di barbari di varia fatta...comprendendovi la barbarie in doppio petto degli sfruttatori commerciali e finanziari... comunità locali, nazioni,o comunità umana che si voglian chiamare, meritano un'altra sorte!
Che l'Expo sia una fiera del Capitale globale,con tutto quanto di abominevole comporta, è un fatto.
Un altro fatto sarebbe che manifestazioni di protesta proponessero disegni ,molteplici, variati a seconda delle differenti disposiizioni, di un'altra vita possibile, veramente più civile, più rispettosa,più solidale.
Un altro fatto ,che all'interno di queste manifestazioni compaia come sempre un di-segno opposto, nichilista, barbarico, non di vita più umanamente organizzata,ma di terrore e morte-
L'ultimo fatto, che di Black bloc,come Isis ecc.l'informazione su capi,modalità, luoghi di raccolta ,finanziamenti ecc. sia al più soltanto accennata, e che simili gruppi puntualmente colpiscano, da decenni, pressochè indisturbati...
E non per nazionalismo, ma per amore delle nostre città e della nostra terra, così come di quelle che amiamo nel mondo intero ,notare con sofferenza come da un millennio e mezzo la Penisola sia terra d'invasione e saccheggio di barbari di varia fatta...comprendendovi la barbarie in doppio petto degli sfruttatori commerciali e finanziari... comunità locali, nazioni,o comunità umana che si voglian chiamare, meritano un'altra sorte!
venerdì 1 maggio 2015
Friedrich Hölderlin
Hölderlin ‹hö′ldër-›,
Friedrich. - Poeta tedesco (Lauffen am Neckar 1770 - Tubinga 1843). Ebbe vita
infelice: aveva due anni quando gli morì il padre; qualche anno più tardi la
madre sposò in seconde nozze il borgomastro della non lontana Nürtingen, e ivi
si trasferì; ma già nel 1779 era di nuovo vedova. Avviato agli studî teologici,
H. fra il 1784 e il 1788 studiò nei seminarî di Denkendorf e Maulbronn, indi
all'università di Tubinga, ove si legò d'amicizia con Hegel e Schelling. Nel
1793 ottenne il titolo abilitante all'esercizio dell'ufficio di pastore, ma,
per motivi ideologici, si rifiutò sempre di assumere un simile incarico. Per
interessamento di Schiller, divenne precettore in casa di Charlotte von Kalb, a
Waltershausen; ma fu una breve e non fortunata esperienza. Esito ancor più
doloroso conseguì l'esperienza di un contatto diretto a Jena
e a Weimar, con Herder,
Schiller e Goethe. Nel gennaio 1796 riprese l'attività di precettore,
trasferendosi a Francoforte sul Meno in casa del ricco banchiere
J. Fr. Gontard; e qui visse il grande amore della sua vita, innamorandosi,
ricambiato, della ventiseienne moglie del banchiere, Susette, cantata col nome
di Diotima. Fu l'unico periodo felice della sua esistenza, troncato nell'estate
del 1798, dopo umiliazioni subite da parte dell'ingelosito banchiere e continue
crisi di coscienza. Dopo il distacco, H. di nascosto riuscì ancora a rivedere
qualche volta Susette, che morì consunta dal dolore da lì a due anni.
All'inizio del 1802 era a Bordeaux, quale precettore in casa del console di Amburgo;
ma già nel maggio dovette abbandonare l'incarico. Tornato a Nürtingen in preda
a un grave e persistente stato di agitazione e di confusione, per le cure della
madre e per la dedizione dell'amico Sinclair
riuscì in parte a recuperare lucidità se non proprio serenità. Nell'estate del
1804, col sostegno del fedele amico Sinclair, H. era a Homburg vor der Höhe,
per assumervi la carica di bibliotecario; ma dopo un inizio che dava adito a
speranze di miglioramento, il male prese sempre più il carattere della
cronicità insanabile; e anche Sinclair dovette infine arrendersi di fronte
all'evidenza. Nel settembre del 1806 accompagnò il demente a Tubinga; dimesso
come incurabile, H. visse sino alla morte in una non lontana torre. ▭ Spirito
nativamente ripiegato in un'interiorità avversa a ogni logica concettuale,
durante la sua formazione H. avvertì l'influsso di Klopstock, Kant, Schiller,
Rousseau, infine dei greci. Da giovane, studente a Tubinga, sentì fortemente il
richiamo del verbo rivoluzionario propagato dalla Francia;
il richiamo all'azione che H. avvertì vigoroso e continuo, si trasformò in lui,
negato all'azione, in un motivo di dissidio interiore. Anche per ciò la poesia
gli divenne rifugio, reazione contemplativa al mondo circostante, appello alla
natura. Cominciò a scrivere, giovanissimo, inni ed elegie schillerianamente
patetiche nel tono e idealizzanti nel contenuto (An die Menschheit, An
die Schönheit, An die Freiheit e simili). Ma l'amore per la sua
terra natale, unito al nascente culto della grecità, lo portò ben presto a
espressioni inconfondibilmente sue, riprese da modelli classici ma insieme
animate da una totale partecipazione. Quel genio greco cantato nel giovanile
inno An den Genius Griechenlands (1790) come "primogenito"
della natura è insistentemente evocato a dare il senso dell'armonia del cosmo,
che è armonia divina che dall'alto compenetra tutto il creato. È lo stesso
genio che, a insanabile contrasto con l'ottuso oscurantismo del presente, è in
grado di ridonare all'umanità lo smarrito senso del divino. Per la sua virtù il
paesaggio bello della Germania meridionale non fu più soltanto tale, ma
si trasformò in un paesaggio grecizzato. Datano dagli anni di Francoforte (1796
- parte del 1798) le prime liriche del tutto personali, alcune esplicitamente
dedicate a Diotima, altre illuminate dalla sua presenza (An Diotima, Ihre
Genesung, Die Fluten des Himmels, An den Aether, Der
Wanderer, Der Mensch). Il distacco da Diotima fu esperienza di una
dolorosità mai più cancellata; ma, pure nel distacco, il
mondo rimane ancora popolato dagli dei, che l'umanità di oggi non è
più in grado di vedere, ma che il poeta, il vate, avverte a sé vicini, non più
solo e non più tanto come generatori della luce di cui la terra è ricolma,
quanto piuttosto come attivi depositarî dei decreti del destino; sicché il
divino continua ad essere esaltato e amato ma insieme esige anche di essere
rispettato e temuto. Sono degli anni 1798-1800, trascorsi in raccoglimento a
Homberg, alcune liriche fra le più compiute, per ricchezza e novità di
messaggio e per armoniosità di eloquio, che mai siano state scritte in lingua
tedesca: Menons Klage um Diotima, Geh unter, schöne Sonne, Abendphantasie,
Der Main, Der Neckar, Heidelberg.
E ancora Mein Eigentum, Rückkehr in die Heimat, Der Tod
fürs Vaterland, Buonaparte, Menschenbeifall, Die
Launischen, An unsere grossen Dichter, Die scheinheiligen Dichter,
An die jungen Dichter. Intanto, fra il 1797 e il 1799, era uscito in due piccoli volumi il romanzo
epistolare Hyperion oder/">oder Der Eremit in Griechenland:
è un romanzo lirico di magica bellezza, tutto traversato da un anelito, gioioso
e insieme disperato, di partecipare della divina immensità del tutto. Hyperion,
personaggio integralmente autobiografico, trova in Diotima, personificazione di
ciò che di divino sulla terra può manifestarsi, l'ispirazione per presagire e
cantare una nuova età beata, pur nella dilacerazione senza prospettive del
momento, che lo rende esule nella patria Grecia
fattasi ignara degli dei e nella Germania ancora ampiamente barbarica. Così, in
una contaminazione fra piano storico e piano utopistico, H. prende anche
coscienza dei problemi del momento, sulla scia dei principî mutuati dalla
Rivoluzione francese (è rimasta famosa la denuncia feroce della miseria della nazione
tedesca), sicché Hyperion diviene la più tormentata testimonianza sulla
situazione tedesca al tramonto del secolo. H. non riuscì invece a conchiudere
l'altra sua opera dal composito disegno, la tragedia Der Tod des Empedokles,
che iniziò nel 1797. Teatralmente improponibile, ma liricamente quasi per
intero all'altezza delle sue migliori cose, la tragedia riprende la leggenda
della morte del filosofo di Agrigento
gettatosi nel cratere dell'Etna, trasvalutandola come sacrificio espiatorio per
una rigenerazione religiosa dell'umanità. Nell'ultima fase, cioè dal 1800 in
poi, caratteristica nuova è l'accentuazione dell'elemento cristologico, in un
appassionato e disperato tentativo di sincretismo religioso, in vista di un
futuro dell'umanità ambìto e insieme temuto. Anche questa fu una stagione
eccezionalmente felice per il poeta, pur se, nel frattempo, la personalità
dell'uomo andava progressivamente sfaldandosi. Am Quell der Donau, Die
Wanderung e Germanien tracciano il disegno di una grandiosa sintesi
della storia spirituale, essenzialmente religiosa, dell'umanità, riservando
alla Germania una sacralizzata centralità. Nel ditirambo Wie wenn am
Feiertage, prima testimonianza del crescente influsso di Pindaro, si
sublima la funzione mediatrice e come tale terribile del vate (tema ripreso in Deutscher
Gesang). Le tre grandi elegie Heimkunft, Die Herbstfeier e Brot
und Wein, interpretabili anche come triade unitaria, cantano la festa dei
frutti della terra generosa in spirito insieme dionisiaco e cristologico. Gli
inni Versöhnender, der du nimmergeglaubt e Der Einzige (cui tiene
dietro il più diffuso e più complesso Friedensfeier) esprimono la
profetica certezza di una generale conciliazione fra gli uomini in spirito
religioso. L'inno cristologico per eccellenza, Patmos, la più poderosa
fra tutte le composizioni di H., assume il rilievo di un testamento spirituale.
Dopo, H. continuò ancora a scrivere liriche talora bellissime (da ricordare,
scritta forse nel 1803, la stupenda Andenken, oltre le traduzioni da Sofocle);
ma poco dopo subentrò il silenzio, interrotto solo da squarci che in nessun
modo si elevano al piano della precedente produzione. A lungo H. dovette
aspettare prima di ottenere i riconoscimenti che si è unanimi oggi nel ritenere
a lui dovuti, come a uno dei sommi della poesia europea.
Enciclopedie on line Treccani
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