martedì 25 febbraio 2014

Cosa c’è dietro la rivolta in Ucraina


Dopo l'interessante discussione di questa mattina in classe, vorrei proprovi questo articolo, per rendervi un pò l'idea...

Cosa c’è dietro la rivolta in Ucraina

Scritto da Luca Scialò on . Postato in Esteri Italia 24 ore

Immagine dei ribelli ucraini
L’Occidente ha interessi affinché l’ex Repubblica socialista sovietica entri nell’ambito Ue. Ma anche l’America. Non a caso telefonate di congratulazioni sono giunte alla Tymoshenko e a Vitali Klitschkó
E così, dopo mesi di proteste iniziate a fine novembre (ne abbiamo parlato qui) diventate autentica guerra civile negli ultimi giorni, il Presidente Viktor Yanukovych è stato deposto e si è dato alla fuga. Il primo effetto di ciò è stata la liberazione, dopo 5 anni di detenzione, di Yulia Tymoshenko, divenuta icona di libertà e giustizia da parte dei ribelli. Yulya Tymoshenko già ieri sera, appena scarcerata, è andata ad arringare la folla – alcune decine di migliaia di persone – che si assiepava in una piazza Indipendenza ancora occupata dalle barricate e dai fortini degli ‘insorti’. Li ha incitati a continuare, finché tutto ciò che rappresenta il governo precedente – e la Russia, e i partiti di sinistra – non sarà spazzato via.
Ma quanto successo in Ucraina è tutto frutto della rivolta popolare? L’Occidente si è limitato solo a fare il tifo per i ribelli o si è spinto oltre? La Tymoshenko è uno stinco di santo così come viene dipinta dagli occidentali? A guardare la sua biografia non sembrerebbe…

Le congratulazioni degli occidentali

E’ significativo che il primo atto politico di Yulia Tymoshenko sia stata una telefonata alla cancelliera tedesca Angela Merkel, che l’ex premier appena uscita di galera incontrerà presto personalmente, come ci ha tenuto a far sapere. Anche il leader della destra repubblicana statunitense John McCain – che qualche mese fa andò ad aizzare piazza Maidan contro “il regime” – rivendica di aver subito telefonato alla Tymoshenko e a Vitali Klitschkó.
Sul fronte internazionale, forse per cercare di recuperare rispetto al protagonismo dell’UE e dell’asse Germania-Francia-Polonia in particolare, Stati Uniti e Fondo monetario internazionale si sono affrettati ieri ad annunciare che sono pronti ad aiutare l’Ucraina e a concedere aiuti economici a Kiev, alla quale ora non è detto che arriveranno i 15 miliardi di dollari promessi dalla Russia. Abbastanza esplicita una affermazione del Ministro del Tesoro USA, Jacob Lew, quando ha rivendicato il fatto che Washington «lavora insieme con altri paesi per assistere l’Ucraina nei suoi sforzi sulla strada del ritorno alla democrazia, alla stabilità e alla crescita». «Siamo pronti a impegnarci», ha rilanciato Christine Lagarde capo del Fmi, «pronti ad aiutare con un’analisi della situazione prima, naturalmente, di giocare il nostro ruolo, come è solito fare il Fondo in situazioni del genere».

Il quadro politico e l’avanzata dell’estrema destra

A Kiev intanto il golpe procede spedito e apparentemente senza ostacoli, sotto la copertura di decisioni adottate nelle ultime ore da una Rada militarizzata dalle ormai ex opposizioni e guidata da ieri dal braccio destro di Yulia Tymoshenko, Oleksandr Turcinov (ex capo dei servizi segreti), appena eletto capo dell’assemblea elettiva e, sulla base della quasi ripristinata costituzione del 2004, anche presidente della Repubblica pro tempore.
Un Parlamento ucraino sotto il controllo delle milizie di Svoboda e di quelle ancora più irrequiete dei gruppi fascisti riuniti nel ‘Pravyi Sektor’ che, armi alla mano, hanno preso possesso di praticamente tutte le sedi istituzionali nella capitale e nelle regioni occidentali e che decidono chi e quando può entrare nell’Aula dove la nuova maggioranza sta rapidamente imponendo le misure chieste da piazza Maidan negli ultimi mesi.
Mentre in tutto il paese si segnalano scontri, aggressioni, assalti a sedi politiche e sindacali da parte dei dimostranti oltranzisti o più spesso da parte di squadracce ben organizzate dei partiti di estrema destra, nei territori orientali e meridionali dell’Ucraina comincia a farsi seriamente strada l’idea che al colpo di stato filoccidentale e autoritario occorra rispondere con una separazione in due del paese.
All’Ucraina converrà davvero allontanarsi dalla Russia ed entrare nell’Unione europea? Chissà se gli ignari manifestanti presenti ieri a Piazza Maidan hanno mai sentito parlare di Troika, austerity, tagli, sacrifici…

VISITA D'ISTRUZIONE.SALUZZO



ISTITUTO “L. Cobianchi”
VERBANIA INTRA

SCHEDA PER VISITE E VIAGGI DI ISTRUZIONE


Anno scolastico :2013-4
Tipologia (1) :visita d’istruzione
GEOGRAFIA, ECONOMIA, STORIA , ARTE  E CULTURA NEL PIEMONTE OCCIDENTALE:
Meta principale :

SALUZZO-Museo civico  Casa Cavassa
CASTELLO della MANTA-ABBAZIA DI STAFFARDA

Possibile itinerario di visita :
VERBANIA- STAFFARDA-MANTA-SALUZZO -VERBANIA

Classi interessate :
3 A- B L.S.A.
Numero di alunni :
33+3 accompagnatori
Durata (2) :1 giorno

Data/periodo : 30 aprile
Motivazione didattica :
Il Marchesato di Saluzzo; Architettura ed arte religiosa cistercense ; I Castelli medievali
Visite guidate Staffarda 3.50 ad alunno –Segreteria Abbazia di Staffarda tel. 0175 273215

Castello della Manta 3 e.   Ufficio Proprietà - Tel 02             467615282 - Fax 02 467615269 E-mail: proprieta@fondoambiente.it 

MUSEO CIVICO CASA CAVASSA e.2.50 E-mail. cavassa@comune.saluzzo.cn.it
tel-fax. +39 0175-41455 cell. +39 342 3801561

Costi. Mezzo di trasporto :pullman preventivo circa  680.00 iva incl  , 21 euro a testa,  se partecipano tutti;
visite guidate 10 e. circa ad alunno

Accompagnatori :VARINI- --PESCIO- -ROSSI
Docente referente :VARINI D.
Condizioni per la partecipazione :
minimo 80% di partecipazione da parte degli alunni di ogni singola classe
Riferimenti e/o contatti (3) :ORGANIZZAZIONE IN PROPRIO> -guide turistiche Abbazia di Staffarda-Castello della Manta(FAI)-Casa Cavassa (Saluzzo)
PROGRAMMA:
h.7              partenza da Verbania
h.9.30/10    inizio  visita guidata all’Abbazia di Staffarda e al Castello della  Manta
h.14             trasferimento a Saluzzo visita guidata al centro storico  e a Casa Cavassa
h.16.30       partenza da Saluzzo

h19.30-  previsione ritorno a Verbania     





                                                                                           

domenica 23 febbraio 2014

Luterani, mea culpa su Hitler


Luterani, mea culpa su Hitler

Fin dall'inizio vi fu un sostegno di gran parte delle Chiese evangeliche al regime nazista, anche sulla base degli scritti antisemiti di Lutero; ora prende il via un serio esame di coscienza. Parla Stephan Linck, lo storico incaricato della prima ricerca sul tema.

di Andrea Galli


 
E' un mea culpa poco spettacolare quanto radicale e in fieri quello che sta compiendo da alcuni anni la Chiesa evangelica del Nord della Germania - una delle 22 Chiese regionali che compongono la Chiesa evangelica tedesca - per la sua compromissione con il nazismo. Una delle ultime iniziative è stata l'incarico allo storico Stephan link di indagare cosa lasciò nel dopoguerra l'appoggio al regime hitleriano. Linck, che si era già occupato degli anni "caldi", dalla Repubblica di Weimar al 1945, ha da poco dato alle stampe Nuovo inizio? Il rapporto della Chiesa evangelica con il suo passato nazista e con l'ebraismo. Le Chiese regionali a nord dell'Elba,1945-1965, primo di due volumi previsti, pubblicato dall'editrice ufficiale della Chiesa regionale del Nord.

- Professor Lindo, da dove nasce questa volontà di trasparenza storica?
  «Quando nel 1998 il Sinodo della Chiesa evangelica della Germania del Nord pubblicò una dichiarazione-chiarimento nel 50o della Notte dei Cristalli, si voleva sapere anche quali provvedimenti antiebraici erano stati emessi dalle Chiese di Lubecca, Eutin, Schleswig-Holstein e Amburgo. Una risposta certa non c'era, per cui si dovette commissionare una ricerca. Di fronte a questo vuoto di conoscenza molti rimasero esterrefatti e si decise perciò di realizzare anche una mostra che tra il 2001 e il 2007 è stata allestita in vari luoghi e ha portato a una profonda discussione, facendo conoscere la complicità della Chiesa evangelica nella persecuzione degli ebrei. Si volle dunque sapere com'era cambiata la Chiesa evangelica dopo il nazismo e com'era stato possibile che nel corso di decenni il tema non fosse mai stato affrontato criticamente; perciò fu deciso di avviare un progetto di ricerca».

- L'ideologia nazista era imbevuta di neopaganesimo: com'è stato possibile tenere Insieme il Vangelo e la mitologia ariana?
  «Agli inizi del regime il supporto protestante a Hitler era massiccio, perché egli aveva rimosso la Repubblica che era vista come un'entità irreligiosa. I nazisti propagandavano un "cristianesimo positivo", rivolto in negativo solo contro gli ebrei, e questo incontrò il favore dei luterani. L'elemento neopagano fu rifiutato dalla maggioranza dei fedeli».

- Gli scritti contro gli ebrei di Lutero hanno un ruolo nella «sintonia» con l'antisemitismo nazista?
  «Le radici profonde dell'antisemitismo della Chiesa evangelica affondavano nel nazionalismo tedesco; tuttavia sì, molti protestanti facevano riferimento agli scritti contro gli ebrei di Lutero per dimostrare che erano loro gli antisemiti "originali": in fondo Lutero aveva già incitato a cacciare gli ebrei e a distruggere con il fuoco le sinagoghe».

- I nazisti hanno goduto del favore dei protestanti più al nord che nel resto della Germania?
  «Prima del 1933 il Partito nazionalsocialista godeva di grande favore nell'elettorato protestante in generale. A differenza dei cattolici, i protestanti durante la Repubblica di Weimar non avevano un partito confessionale di riferimento. Furono in particolare i luterani a rifiutare la Repubblica, perché questa aveva portato alle dimissioni del Kaiser e re di Prussia, che era visto come l'autorità luterana».

- Una curiosità: la Lutherkircke di Lubecca fu costruita orientata a nord. Quanto l'ideologia nazista ha influenzato l'architettura sacra?
  «L'architettura delle chiese fu decisa dalle singole comunità e non ci fu un progetto comune. Nella Lutherkirche di Lubecca predicavano appartenenti all'Alleanza per la Chiesa tedesca (Bund für deutsche Klrche), una piccola minoranza della Chiesa evangelica. Costoro rifiutavano l'Antico Testamento, troppo ebraico, e identificavano il Dio padre della Bibbia con il nordico "Padre di tutti" (Allvater, appellativo di Odino, ndr). Per questo si doveva pregare verso nord e non verso est, cioè verso Gerusalemme. Un'altra chiesa dedicata a Lutero ad Amburgo, nel quartiere di Wellingsbüttel, fu costruita orientata a nord. L'Alleanza per la Chiesa tedesca fu fondata nel 1919, ma solo durante l'egemonia nazista ebbe grande influsso. L'esponente più acceso dei cosiddetti "Cristiani Tedeschi" nello Schleswig-Holstein, Propst Ernst Szymanowski, divenne a tal punto estremista da uscire dalla Chiesa e diventare un ufficiale delle Ss. A capo di un Einsatzkommando fu responsabile dell'uccisione di migliaia di russi e fu condannato al processo di Norimberga».

- Quali sono state le omissioni della Chiesa evangelica che nel suo studio l'hanno più colpita?
  «Dopo il 1945 la grande maggioranza dei luterani non si è confrontata con il proprio filo-nazismo. Venivano piuttosto criticate le "forze di occupazione" e la "giustizia dei vincitori". Nella Germania distrutta, in cui affluirono milioni di profughi dai territori perduti a est, non si voleva ammettere che quella condizione era stata causata dai tedeschi stessi, che avevano peraltro inflitto sofferenze peggiori alle altre popolazioni. Nella Chiesa luterana il sentimento collettivo dei fedeli ebbe un maggior peso rispetto alla necessità di giudicare il proprio passato. È triste quanto in ritardo sia iniziata un'analisi critica. Ed è amaro constatare come anche le ricerche sulla storia della Chiesa in ambito universitario si siano occupate molto poco delle responsabilità della Chiesa evangelica durante il nazismo. Mi è stato particolarmente chiaro quando ho avuto modo di parlare con protestanti di origine ebraica: hanno aspettato per decenni un mea culpa della Chiesa. Una di queste figure era la figlia di un pastore della Chiesa dello Schleswig-Holstein, al quale nel 1939 fu proibito di esercitare il suo ministero perché si era rifiutato di separarsi dalla moglie - un'ebrea che si era battezzata. Il padre nel 1945 aveva fatto richiesta di essere riammesso in servizio come pastore, ma la famiglia aspettò invano le scuse da parte della Chiesa Quando portai a conoscenza il caso, in quella che era stata la sua chiesa fu posta una targa. La donna morì tre mesi dopo: aveva fatto appena in tempo a ricevere la richiesta di perdono così a lungo attesa».

(Avvenire, 19 febbraio 2014)

martedì 18 febbraio 2014

L'Inquisizione



Confisca, l'arma più potente nelle mani dell'Inquisizione



Scritto da Paolo Mieli, Corriere della Sera | 18 Febbraio 2014

La preistoria dell'Inquisizione ha inizio da un momento indeterminato, tra la fine del XII e la metà del XIII secolo, quando si formò una struttura sovrannazionale di governo ecclesiastico. È la conseguenza dell'opera di due papi: Gregorio VII (1073-1085) e, soprattutto, Innocenzo III (1198-1216). Pontefici che sancirono non solo la superiorità del vescovo di Roma sull'imperatore in tema di nomina e deposizione dei principi e dei vescovi feudatari, ma anche il potere di governare gerarchicamente tutta la cristianità occidentale. La struttura inquisitoriale della Chiesa agli inizi del secondo millennio operava in modi rudimentali, per delega diretta del Papa e grazie ai membri dei nuovi ordini mendicanti: domenicano e francescano. Le aree di influenza di questi agenti, che si dedicavano a combattere le eresie, furono prevalentemente la penisola italiana, la Francia del sud e l'Aragona. In terra franco-tedesca le potenti Chiese episcopali fecero da sé. Fin dal Medioevo i giudici di fede inflissero ai loro condannati pene pecuniarie, talvolta in cambio dell'attenuazione di castighi fisici o spirituali. E si segnalarono quasi subito casi di malversazione.
A mettere ordine in questa complicata situazione provvide la creazione delle tre Inquisizioni mediterranee: la spagnola (1478), la portoghese (1536) e, ultima, quella romana (1542). Le prime due nacquero, secondo l'autore, come «frutto di una connessione istituzionale tra giurisdizione ecclesiastica e potere statale». E fu proprio la natura di tribunale ecclesiastico controllato dallo Stato, sostiene Maifreda, «a farne uno strumento repressivo di grande duttilità e potenza, in grado di superare le norme canoniche medievali per procedere con la notoria durezza e con grande libertà d'azione». Tutti gli ufficiali dell'Inquisizione spagnola avevano il rango di ministri del re e come tali erano pagati dal sovrano. I pontefici si riservavano un forte potere di intervento, finché entrarono con loro in aperto conflitto. Urto che portò alla decisione di Leone X, nel 1520, di imporre le dimissioni di massa di tutti i suoi ufficiali, con l'unica eccezione dell'inquisitore generale Adriano di Utrecht. E allo smantellamento dell'intera struttura spagnola. Anche stavolta al Papa si poneva il problema di reagire ad accuse di malversazioni che venivano dal reggente di Castiglia, Francisco Jiménez Cisneros, il quale aveva rimproverato agli inquisitori di essersi dedicati a «vender la fe' catolica». Ma non fu soltanto per ovviare a questo genere di problemi (i quali, anzi, si sarebbero riproposti) che Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, nel 1542 — più o meno all'epoca in cui convocò il Concilio di Trento — creò quella che presto avrebbe preso il nome di Congregazione del Sant'Officio. A fargli prendere la decisione di compiere questo passo era stato il governatore della Milano spagnola, il marchese del Vasto che, considerando insufficiente l'impegno dell'inquisitore locale nel combattere la diffusione delle dottrine protestanti, invocò un intervento della Curia romana.
Paolo III, nel concistoro del 15 luglio 1541, assegnò ai cardinali Gian Pietro Carafa de Girolamo Aleandro «la cura universale della Inquisitione», concedendo loro «i poteri di nominare liberamente, inviare e coordinare l'azione di nuovi giudici di fede in tutta la cristianità». Il disegno di Paolo III e ancor più quello dei suoi successori (Carafa in primo luogo, che, in segno di continuità con il Farnese, prese il nome di Paolo IV), era quello di fronteggiare l'eresia luterana, restituendo alla Chiesa di Roma una centralità indiscussa. Centralità che determinò una rivoluzione economica. La redistribuzione delle risorse che, tra Cinque e Seicento, i pontefici attuarono a vantaggio dell'Inquisizione e a danno delle diocesi costituì, secondo Maifreda, « un momento importante e fino a ora poco indagato del rafforzamento del centralismo romano». È la tesi già sostenuta da Rudolf Lill ne Il potere dei papi dall'età moderna a oggi (Laterza). Dopo il Concilio di Trento si pose il problema di far capire quanto contasse davvero il Papa. Tutto quel che avvenne in seguito, scrive Maifreda, faceva parte di «una strategia volta a riequilibrare i poteri che il Concilio aveva conferito ai vescovi, affiancando loro i membri degli ordini vecchi e nuovi, ritenuti meno condizionabili dalle pressioni dei ceti aristocratici e dai potentati locali».
Ma con il pontificato di Paolo IV Carafa (1555-1559) si ha anche un fondamentale momento di discontinuità nella storia dell'Inquisizione moderna. Tutto era iniziato a Bergamo, dove dal 1550 frate Michele Ghisleri (futuro papa Pio V) aveva indagato in segreto sull'ortodossia del vescovo Vittore Soranzo, subendone un'aggressione armata che lo costrinse addirittura a fuggire a cavallo dal convento. Non prima però che avesse messo in salvo l'incartamento processuale contro l'ordinario. Dopo che Soranzo nel 1554 ebbe la meglio, la diocesi fu di fatto commissariata dal Sant'Officio e questo non fu che il caso più eclatante del conflitto, incoraggiato da numerosi papi, tra inquisitori e vescovi. Di qui inizia un fenomeno che si protrarrà a lungo e sarà detto della «renitenza vescovile». Nel 1594 il vescovo di Vercelli fece addirittura sequestrare le entrate beneficiarie dell'Inquisizione locale. Conflitti del genere si ebbero poi lungo il corso di tutto il Seicento: a Rovigo, Gubbio, Imola.
Lo storico poi si sofferma sulla confisca, da intendersi come una forma di «cancellazione del passato». Confisca che, quando nel 1542 nacque l'Inquisizione romana, aveva alle spalle una storia millenaria che affondava le proprie radici nel diritto di Roma antica. Pochi, scrive Maifreda, «oggi ricordano che l'istituto giuridico della confisca dei beni dei condannati, che riguarda soprattutto chi riceva la pena di morte, praticato fin dall'epoca romana e poi per tutto il Medioevo e l'età moderna, fu al centro di un acceso dibattito nell'età dei Lumi, principalmente per le implicazioni morali e filosofiche che gli erano intrinseche». Mise ben a fuoco il tema Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene (1764). Osservò, Beccaria, che confiscare i beni legittimamente accumulati da un individuo equivaleva a estenderne la pena ai collaterali e discendenti, sebbene fossero giuridicamente innocenti: «Ciò, oltre che moralmente ingiusto... rappresenta una condanna a morte di fatto, con il troncamento di ogni suo legame con il consorzio civile, e la cancellazione non solo del suo presente e del suo futuro, ma anche del suo passato». La confisca «turbava in misura irreparabile gli assetti sociali e fiduciari che spingevano gli attori a stipulare dei contratti — compravendite, prestiti, affittanze, lasciti e quant'altro — contando sulla continuità della garanzia dei diritti di proprietà e dei legami informali». Sicché i circuiti economici animati in Italia da mercanti provenienti da aree europee a preminenza religiosa riformata, o da colleghi peninsulari che periodicamente soggiornavano o avevano dimorato a lungo in tali aree fino a quando ciò fu consentito — vale a dire la fine del Cinquecento — vedevano, in questo quadro, il più alto rischio che i loro protagonisti rimanessero impigliati nelle maglie dell'Inquisizione romana. Ciò che creava sui mercati italiani un clima di incertezza generalizzato anche se, ammette Maifreda, è impossibile dire in che misura tutto questo avvenisse.
In ogni caso, però, con la confisca l'Inquisizione si diffondeva nella società «moltiplicando le dignità, gli uffici e i soggetti che con essa collaboravano e, in ultima istanza, la sua visibilità e la sua forza». Donne e uomini «che mai si sarebbero inoltrati volontariamente nei meandri delle procedure d'Inquisizione furono mobilitati da autorità pubbliche e religiose, le quali convocandoli, interrogandoli, nominandoli forzatamente loro rappresentanti, intaccandone direttamente o indirettamente i diritti patrimoniali, li precipitarono nel gorgo della repressione del dissenso religioso». Essi furono così trasformati in «testimonianze viventi, in mano ai tribunali confessionali, del potere superiore» di «disarticolare alcuni fondamenti morali del sistema sociale, tra cui la certezza dei diritti di proprietà, la perpetuazione del sistema successorio e il legame tra unitarietà patrimoniale e identità familiare, che una grave condanna poteva spezzare per sempre»
Ma la situazione che si venne a creare nel mondo che ebbe al centro l'Inquisizione è ancora più complicata. Valga per far comprendere la portata dell'intreccio una vicenda della seconda metà del Cinquecento. L'autore ricorda il caso di un inquisitore di Milano il quale, nel corso di una confisca, scoprì che l'eretico Bernardino Appiani di Pallanza — medico studioso di teologia e scienze occulte fuggito dal carcere nel 1571 e successivamente arso in effigie — vantava un credito di quasi duemila scudi d'oro nei confronti del conte Giorgio Costa della Trinità, capitano generale della tragica spedizione militare voluta nel 1560 da Emanuele Filiberto di Savoia contro le valli valdesi. Il grande dissidente si scopriva così essere stato finanziatore di una crociata contro gli eretici.
Gli inquisitori romani di età moderna, scrive Maifreda, «non furono, come potrebbe lasciar intendere una letteratura storiografica tutta schiacciata sulla dimensione processuale, oscuri teologi claustrali, periodicamente affioranti da buie aule conventuali per castigare crudelmente delitti di fede e tornare, subito dopo, a una vita di erudizione e contemplazione, in attesa di perseguire una nuova vittima». Essi furono invece «costantemente immersi in un fluire vitale di relazioni politiche e sociali, nello sforzo di gestire attività economiche la cui cura richiedeva un impegno prosaico, puntuale e continuo». Gradualmente, «gli inquisitori impararono a trasformarsi in amministratori di patrimoni accumulati dai loro predecessori tramite confische, multe, compravendite, prestiti di denaro, lasciti ereditari e diverse altre forme di investimento». E in ciò «manifestarono una vitalità che, seppur entro i limiti e la vigilanza stabilita da Roma, li avvicinò a possidenti privati e li fece entrare entro segmenti rilevanti dei circuiti commerciali e creditizi dell'Antico Regime». Le principali sedi peninsulari del Sant'Officio manifestarono, lungo tutta la loro storia, una intraprendenza finanziaria e patrimoniale «per certi aspetti sorprendente». Per gli inquisitori, che così attentamente amministravano il patrimonio dei tribunali locali, rappresentare l'Inquisizione poteva costituire un significativo vantaggio sul «mercato» del credito, degli immobili e dei contratti agrari.
Ma ci fu anche dell'altro. All'inizio del Seicento si ebbero alcune situazioni che testimoniano un'evidente «sovrapposizione fra giurisdizione inquisitoriale, intrecci politici e interessi materiali». Ranuccio Farnese, duca di Parma e Piacenza, istruì e condusse personalmente un imponente processo per stregoneria dopo aver ottenuto da diversi nobili locali la «confessione» di aver preso parte ad una fantasiosa congiura contro alcuni sovrani della penisola, 18 cardinali e lo stesso Papa. Processo che si concluse nel maggio del 1612 con la decapitazione e l'impiccagione di dieci persone nella piazza principale di Parma, nel corso di una lugubre cerimonia che durò oltre tre ore. In agosto poi furono impiccati due prelati. Successivamente il Farnese si impadronì di terre e beni dei condannati a morte. Qualcosa di analogo — anche se di segno diverso — accadde nella Torino dei Savoia. Qui, nel 1634, una «posseduta», la nobile decaduta Margherita Roera, esorcizzata da un frate domenicano, accusò il plenipotenziario ducale Lelio Cauda di aver ammaliato Vittorio Amedeo I. Venne inscenata anche una finta possessione. Ma fu subito evidente il tentativo dell'inquisitore, Girolamo Robiolo, di screditare Cauda per mandare in frantumi il suo sistema di potere. Vittorio Amedeo reagì e riuscì a ottenere l'arresto dell'inquisitore da parte del provinciale domenicano. E dal Sant'Officio venne una condanna esemplare di coloro che avevano partecipato al complotto.
Contemporaneamente, in epoca «immediatamente successiva alla chiusura della fase più acuta della repressione antiluterana» si ebbe, poi, quella che può essere definita una «specializzazione antiebraica» dei tribunali inquisitoriali. Siamo qui, ha scritto Adriano Prosperi «nel cuore dell'antiebraismo cattolico, cioè di quella lunga guerra di posizione condotta dal cattolicesimo nei confronti di una presenza tollerata ma certamente non amata». «Specializzazione antiebraica» o forse «specializzazione ebraica» (tema ben approfondito in alcuni studi da Marina Caffiero), che diede una forte caratterizzazione al Sant'Officio. Quantomeno fino al 1769, quando papa Clemente XIV trasferì dall'Inquisizione, che la deteneva dal 1581, al vicariato di Roma, la giurisdizione su tutte le cause non religiose o commerciali in cui fosse implicata la locale comunità israelitica. Ma, attenzione, le cose andarono in modo diverso da come le si è percepite. Colpiscono i numerosi casi in cui il Sant'Officio romano nel Sei e nel Settecento, fu capace di respingere le cause intentate dai negozianti cristiani i quali, per difendere i loro monopoli sui mercati cittadini, inventavano ogni genere di accuse contro i concorrenti israeliti. Marina Caffiero e Angela Groppi hanno individuato molti casi in cui il Sant'Officio «si fece garante degli ebrei» nei confronti dei gentili che miravano a limitarne la presenza fuori dai ghetti, «minacciando o rompendo monopoli commerciali di cui i cristiani godevano da secoli». C'erano stati, è vero, episodi terribili come quello dei roghi degli ebrei anconetani di metà Cinquecento, in cui anche l'Inquisizione ebbe una parte non di secondo piano. Orrori finalizzati ad appropriarsi dei beni degli ebrei. Ma, afferma lo storico, «allo stato attuale degli studi non pare tuttavia possibile scorgere entro il sistema dei tribunali centrale e locali italiani di metà e secondo XVI secolo una sistematica opera di incameramento dei beni di persone coinvolte in processi inquisitoriali, né un'integrazione fra procedura di fede ordinaria e indagini patrimoniali paragonabili a quelle evidenziate dagli studi inerenti il caso spagnolo».
E restiamo nelle Marche. Nell'agosto del 1624 l'inquisitore di Ancona ricevette una richiesta d'aiuto da parte della comunità ebraica locale, che si riteneva molestata dal neofito Giovan Giorgio Aldobrandino. È interessante notare come gli ebrei preferissero rivolgersi all'Inquisizione piuttosto che al vescovo. Ritenevano evidentemente che il tribunale del Sant'Officio «fornisse loro maggiori garanzie di correttezza procedurale rispetto all'asserita rapacità di quello vescovile». E infatti l'autorità diede loro ragione. Con l'inquisitore che denunciava come le cause del Sant'Officio alla corte episcopale di Ancona si facessero «malissimo, perché non vi è segretezza et ogni cosa è venale, et in cambio di trattarle santamente servono per fare estorsioni de' denari (che se nella corte episcopale si facessero le cause del Santo Officio gratis, et pro Deo amore, come in questo santo tribunale, non sarebbono così solleciti in procurare dette cause con dare anco buona mano o stipendio a denuncianti» . E si riconosceva il torto di un altro neofito, Paolo Savello, che aveva accusato un ebreo per stupro ad esclusivo scopo di lucro. Savello, secondo l'inquisitore, aveva fatto «questa inventione diabolica per cavarli (all'ebreo, ndr ) danari dalle mani, fingendo che ne sia accusato all'Inquisitione». Per merito dell'Inquisizione venivano alla luce personaggi all'interno delle corti episcopali, specializzati in pratiche quali «coprirsi del Santo Officio e sotto il suo nome con false iniuntioni rubbare li denari alli poveri hebrei». Il caso di Ancona, secondo Maifreda, «da un lato richiama la consumata abilità degli israeliti, frutto di plurisecolare necessità, nello scivolare tra le maglie giurisdizionali dei tribunali ecclesiastici e fra questi e le corti e magistrature secolari, a scopo autodifensivo; dall'altro dimostra però che i rapporti fra Inquisizione e comunità ebraiche furono più plastici di quanto non evidenzi l'analisi dei processi fondati su aspetti strettamente religiosi».
Già Grado Giovanni Merlo ne Il cristianesimo medievale in Occidente (Laterza) ha fatto notare come il ricorso agli strumenti di coercizione violenta non sia stato determinante nella vittoria della Chiesa romana sugli eretici. Per quanto «il pubblico non specialista, come già in passato eruditi mossi da, espressi o sottaciuti, intenti polemici» avverte Maifreda «possa inevitabilmente essere sedotto dalla miscela di attrazione e repulsione suscitata dalla dimensione cruenta dell'operato inquisitoriale, è oramai da ritenersi superata un'impostazione del discorso sull'Inquisizione imperniata sulla contrapposizione fra apologetica e Leyenda negra». Lo storico, però, poi mette le mani avanti: la sua «lettura aperta del funzionamento dei tribunali dell'Inquisizione non si propone assolutamente di schiacciare il loro operato sulla mera dimensione economica, ciò che sarebbe scorretto sotto il profilo epistemologico oltre che, allo stato attuale della documentazione e delle ricerche, rigorosamente indimostrabile». Tale modo di guardare all'Inquisizione, però, «può consentirci di dischiudere l'interpretazione dell'operato dei tribunali di fede a una pluralità di variabili e a una circolarità di decisioni e funzioni, i cui molteplici presupposti e conseguenze sono da vagliare caso per caso». E, talvolta, sezionando anche il singolo caso. Meritoriamente.
(Per capire il modo in cui sono andate davvero le cose bisogna osservare come si sono mossi i soldi. Un principio che, secondo Germano Maifreda, ben si applica all'Inquisizione, una storia sviluppatasi per due secoli e mezzo: dalla nascita della Congregazione del Sant'Officio (1542) alla fine del Settecento. E che ora fa da spina dorsale al libro originale e intelligente di Maifreda, I denari dell'inquisitore. Affari e giustizia di fede nell'Italia moderna , che esce oggi per Einaudi. Quante persone sono state coinvolte in questo non breve percorso? Andrea Del Col, ne L'Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo (Mondadori), ha stimato che i processi di cui qui stiamo parlando furono tra i 50 e i 75 mila. E gli imputati tra i 200 e i 300 mila. Le loro storie, se ben passate al setaccio, ci svelano aspetti inediti (o, comunque, fin qui mai analizzati in sé) dell'entrata di Chiesa ed Europa nella modernità. Tanto più che, come scrive Maifreda, le confische e le altre pene pecuniarie furono, per gli inquisitori, «ben più che una fonte di denaro». Anzitutto «esse costituirono un agile strumento di amplificazione del potere della giustizia di fede, la quale, deprivando persone di tutti i ceti sociali delle proprie sostanze e spezzando la trasmissione ereditaria di casate di grande prestigio e visibilità, sanciva tangibilmente la propria supremazia su alcune delle più antiche e prestigiose istituzioni sociali dell'Antico Regime: la persistenza del cognome, la conservazione unitaria e la trasmissione intatta del patrimonio alle generazioni successive». Oltre tutto la «confisca dava agli inquisitori l'opportunità di procurarsi informazioni non emerse nell'ambito del processo già concluso e aprire, così, nuove procedure offensive».
Le pene pecuniarie costituirono, dunque, «un cruciale strumento di alleanza e di dialogo — anche, ma non solo, nei termini della contesa — fra tribunali ecclesiastici e autorità secolari», che si occupavano materialmente dell'incameramento dei beni. Chiusa la fase del processo inquisitoriale, condotto da autorità ecclesiastiche sotto un manto di segretezza difficilmente penetrabile, la giustizia di fede, al momento della confisca, «si schiudeva alla piena visibilità sociale e dialogava compiutamente con le autorità secolari, sviluppando un linguaggio politico e un progetto repressivo comuni». Laddove si comprende che tutto ciò rappresentò per il Sant'Officio non solo una rilevante fonte di entrata, ma anche (e soprattutto) un'occasione di negoziazione politica con i governi locali. Il tutto in un'epoca assai particolare. L'epoca in cui nacque la Congregazione del Sant'Officio e in cui si consolidò la gestione economica della sua rete territoriale, scrive Maifreda, «fu la stessa che vide — a fronte di una demografia in crescita, dell'aumento dei consumi e dei prezzi e di un'espansione dei commerci infra e interregionali, non accompagnata da un adeguamento dell'offerta di credito bancario in senso proprio — un crescente numero di persone e istituzioni familiarizzarsi con tecniche finanziarie anche sofisticate e procedere a concessioni di denaro a prestito». Si stabilì in tal modo «un tessuto connettivo di crediti minuti e diffusi, che funzionava in base a meccanismi sociali di fidelizzazione reciproca e di circolazione di informazioni e garanzie reputazionali fra prestatori e debitori... Meccanismi entro cui la detenzione di una pubblica fama di ortodossia religiosa giocava sicuramente un ruolo determinante».)