Confisca, l'arma più potente
nelle mani dell'Inquisizione
Scritto da
Paolo Mieli, Corriere della Sera | 18 Febbraio 2014
La preistoria dell'Inquisizione ha inizio da un momento indeterminato, tra la
fine del XII e la metà del XIII secolo, quando si formò una struttura
sovrannazionale di governo ecclesiastico. È la conseguenza dell'opera di due papi:
Gregorio VII (1073-1085) e, soprattutto, Innocenzo III (1198-1216). Pontefici
che sancirono non solo la superiorità del vescovo di Roma sull'imperatore in
tema di nomina e deposizione dei principi e dei vescovi feudatari, ma anche il
potere di governare gerarchicamente tutta la cristianità occidentale. La
struttura inquisitoriale della Chiesa agli inizi del secondo millennio operava
in modi rudimentali, per delega diretta del Papa e grazie ai membri dei nuovi
ordini mendicanti: domenicano e francescano. Le aree di influenza di questi
agenti, che si dedicavano a combattere le eresie, furono prevalentemente la
penisola italiana, la Francia del sud e l'Aragona. In terra franco-tedesca le
potenti Chiese episcopali fecero da sé. Fin dal Medioevo i giudici di fede
inflissero ai loro condannati pene pecuniarie, talvolta in cambio
dell'attenuazione di castighi fisici o spirituali. E si segnalarono quasi
subito casi di malversazione.
A mettere ordine in questa complicata situazione provvide la creazione delle
tre Inquisizioni mediterranee: la spagnola (1478), la portoghese (1536) e,
ultima, quella romana (1542). Le prime due nacquero, secondo l'autore, come
«frutto di una connessione istituzionale tra giurisdizione ecclesiastica e
potere statale». E fu proprio la natura di tribunale ecclesiastico controllato
dallo Stato, sostiene Maifreda, «a farne uno strumento repressivo di grande
duttilità e potenza, in grado di superare le norme canoniche medievali per
procedere con la notoria durezza e con grande libertà d'azione». Tutti gli
ufficiali dell'Inquisizione spagnola avevano il rango di ministri del re e come
tali erano pagati dal sovrano. I pontefici si riservavano un forte potere di
intervento, finché entrarono con loro in aperto conflitto. Urto che portò alla
decisione di Leone X, nel 1520, di imporre le dimissioni di massa di tutti i
suoi ufficiali, con l'unica eccezione dell'inquisitore generale Adriano di
Utrecht. E allo smantellamento dell'intera struttura spagnola. Anche stavolta
al Papa si poneva il problema di reagire ad accuse di malversazioni che
venivano dal reggente di Castiglia, Francisco Jiménez Cisneros, il quale aveva
rimproverato agli inquisitori di essersi dedicati a «vender la fe' catolica».
Ma non fu soltanto per ovviare a questo genere di problemi (i quali, anzi, si
sarebbero riproposti) che Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, nel 1542 —
più o meno all'epoca in cui convocò il Concilio di Trento — creò quella che
presto avrebbe preso il nome di Congregazione del Sant'Officio. A fargli
prendere la decisione di compiere questo passo era stato il governatore della
Milano spagnola, il marchese del Vasto che, considerando insufficiente
l'impegno dell'inquisitore locale nel combattere la diffusione delle dottrine
protestanti, invocò un intervento della Curia romana.
Paolo III, nel concistoro del 15 luglio 1541, assegnò ai cardinali Gian Pietro
Carafa de Girolamo Aleandro «la cura universale della Inquisitione», concedendo
loro «i poteri di nominare liberamente, inviare e coordinare l'azione di nuovi
giudici di fede in tutta la cristianità». Il disegno di Paolo III e ancor più
quello dei suoi successori (Carafa in primo luogo, che, in segno di continuità
con il Farnese, prese il nome di Paolo IV), era quello di fronteggiare l'eresia
luterana, restituendo alla Chiesa di Roma una centralità indiscussa. Centralità
che determinò una rivoluzione economica. La redistribuzione delle risorse che,
tra Cinque e Seicento, i pontefici attuarono a vantaggio dell'Inquisizione e a
danno delle diocesi costituì, secondo Maifreda, « un momento importante e fino
a ora poco indagato del rafforzamento del centralismo romano». È la tesi già
sostenuta da Rudolf Lill ne Il potere dei papi dall'età moderna a oggi
(Laterza). Dopo il Concilio di Trento si pose il problema di far capire quanto
contasse davvero il Papa. Tutto quel che avvenne in seguito, scrive Maifreda,
faceva parte di «una strategia volta a riequilibrare i poteri che il Concilio
aveva conferito ai vescovi, affiancando loro i membri degli ordini vecchi e
nuovi, ritenuti meno condizionabili dalle pressioni dei ceti aristocratici e
dai potentati locali».
Ma con il pontificato di Paolo IV Carafa (1555-1559) si ha anche un
fondamentale momento di discontinuità nella storia dell'Inquisizione moderna.
Tutto era iniziato a Bergamo, dove dal 1550 frate Michele Ghisleri (futuro papa
Pio V) aveva indagato in segreto sull'ortodossia del vescovo Vittore Soranzo,
subendone un'aggressione armata che lo costrinse addirittura a fuggire a
cavallo dal convento. Non prima però che avesse messo in salvo l'incartamento
processuale contro l'ordinario. Dopo che Soranzo nel 1554 ebbe la meglio, la
diocesi fu di fatto commissariata dal Sant'Officio e questo non fu che il caso
più eclatante del conflitto, incoraggiato da numerosi papi, tra inquisitori e
vescovi. Di qui inizia un fenomeno che si protrarrà a lungo e sarà detto della
«renitenza vescovile». Nel 1594 il vescovo di Vercelli fece addirittura
sequestrare le entrate beneficiarie dell'Inquisizione locale. Conflitti del
genere si ebbero poi lungo il corso di tutto il Seicento: a Rovigo, Gubbio,
Imola.
Lo storico poi si sofferma sulla confisca, da intendersi come una forma di
«cancellazione del passato». Confisca che, quando nel 1542 nacque
l'Inquisizione romana, aveva alle spalle una storia millenaria che affondava le
proprie radici nel diritto di Roma antica. Pochi, scrive Maifreda, «oggi
ricordano che l'istituto giuridico della confisca dei beni dei condannati, che
riguarda soprattutto chi riceva la pena di morte, praticato fin dall'epoca romana
e poi per tutto il Medioevo e l'età moderna, fu al centro di un acceso
dibattito nell'età dei Lumi, principalmente per le implicazioni morali e
filosofiche che gli erano intrinseche». Mise ben a fuoco il tema Cesare
Beccaria in Dei delitti e delle pene (1764). Osservò, Beccaria, che confiscare
i beni legittimamente accumulati da un individuo equivaleva a estenderne la
pena ai collaterali e discendenti, sebbene fossero giuridicamente innocenti:
«Ciò, oltre che moralmente ingiusto... rappresenta una condanna a morte di
fatto, con il troncamento di ogni suo legame con il consorzio civile, e la
cancellazione non solo del suo presente e del suo futuro, ma anche del suo
passato». La confisca «turbava in misura irreparabile gli assetti sociali e
fiduciari che spingevano gli attori a stipulare dei contratti — compravendite,
prestiti, affittanze, lasciti e quant'altro — contando sulla continuità della
garanzia dei diritti di proprietà e dei legami informali». Sicché i circuiti
economici animati in Italia da mercanti provenienti da aree europee a
preminenza religiosa riformata, o da colleghi peninsulari che periodicamente
soggiornavano o avevano dimorato a lungo in tali aree fino a quando ciò fu
consentito — vale a dire la fine del Cinquecento — vedevano, in questo quadro,
il più alto rischio che i loro protagonisti rimanessero impigliati nelle maglie
dell'Inquisizione romana. Ciò che creava sui mercati italiani un clima di
incertezza generalizzato anche se, ammette Maifreda, è impossibile dire in che
misura tutto questo avvenisse.
In ogni caso, però, con la confisca l'Inquisizione si diffondeva nella società
«moltiplicando le dignità, gli uffici e i soggetti che con essa collaboravano
e, in ultima istanza, la sua visibilità e la sua forza». Donne e uomini «che
mai si sarebbero inoltrati volontariamente nei meandri delle procedure
d'Inquisizione furono mobilitati da autorità pubbliche e religiose, le quali
convocandoli, interrogandoli, nominandoli forzatamente loro rappresentanti,
intaccandone direttamente o indirettamente i diritti patrimoniali, li
precipitarono nel gorgo della repressione del dissenso religioso». Essi furono
così trasformati in «testimonianze viventi, in mano ai tribunali confessionali,
del potere superiore» di «disarticolare alcuni fondamenti morali del sistema
sociale, tra cui la certezza dei diritti di proprietà, la perpetuazione del
sistema successorio e il legame tra unitarietà patrimoniale e identità
familiare, che una grave condanna poteva spezzare per sempre»
Ma la situazione che si venne a creare nel mondo che ebbe al centro
l'Inquisizione è ancora più complicata. Valga per far comprendere la portata
dell'intreccio una vicenda della seconda metà del Cinquecento. L'autore ricorda
il caso di un inquisitore di Milano il quale, nel corso di una confisca, scoprì
che l'eretico Bernardino Appiani di Pallanza — medico studioso di teologia e
scienze occulte fuggito dal carcere nel 1571 e successivamente arso in effigie
— vantava un credito di quasi duemila scudi d'oro nei confronti del conte
Giorgio Costa della Trinità, capitano generale della tragica spedizione
militare voluta nel 1560 da Emanuele Filiberto di Savoia contro le valli
valdesi. Il grande dissidente si scopriva così essere stato finanziatore di una
crociata contro gli eretici.
Gli inquisitori romani di età moderna, scrive Maifreda, «non furono, come
potrebbe lasciar intendere una letteratura storiografica tutta schiacciata
sulla dimensione processuale, oscuri teologi claustrali, periodicamente
affioranti da buie aule conventuali per castigare crudelmente delitti di fede e
tornare, subito dopo, a una vita di erudizione e contemplazione, in attesa di
perseguire una nuova vittima». Essi furono invece «costantemente immersi in un
fluire vitale di relazioni politiche e sociali, nello sforzo di gestire
attività economiche la cui cura richiedeva un impegno prosaico, puntuale e
continuo». Gradualmente, «gli inquisitori impararono a trasformarsi in
amministratori di patrimoni accumulati dai loro predecessori tramite confische,
multe, compravendite, prestiti di denaro, lasciti ereditari e diverse altre
forme di investimento». E in ciò «manifestarono una vitalità che, seppur entro
i limiti e la vigilanza stabilita da Roma, li avvicinò a possidenti privati e
li fece entrare entro segmenti rilevanti dei circuiti commerciali e creditizi
dell'Antico Regime». Le principali sedi peninsulari del Sant'Officio
manifestarono, lungo tutta la loro storia, una intraprendenza finanziaria e
patrimoniale «per certi aspetti sorprendente». Per gli inquisitori, che così attentamente
amministravano il patrimonio dei tribunali locali, rappresentare l'Inquisizione
poteva costituire un significativo vantaggio sul «mercato» del credito, degli
immobili e dei contratti agrari.
Ma ci fu anche dell'altro. All'inizio del Seicento si ebbero alcune situazioni
che testimoniano un'evidente «sovrapposizione fra giurisdizione inquisitoriale,
intrecci politici e interessi materiali». Ranuccio Farnese, duca di Parma e
Piacenza, istruì e condusse personalmente un imponente processo per stregoneria
dopo aver ottenuto da diversi nobili locali la «confessione» di aver preso
parte ad una fantasiosa congiura contro alcuni sovrani della penisola, 18
cardinali e lo stesso Papa. Processo che si concluse nel maggio del 1612 con la
decapitazione e l'impiccagione di dieci persone nella piazza principale di
Parma, nel corso di una lugubre cerimonia che durò oltre tre ore. In agosto poi
furono impiccati due prelati. Successivamente il Farnese si impadronì di terre
e beni dei condannati a morte. Qualcosa di analogo — anche se di segno diverso
— accadde nella Torino dei Savoia. Qui, nel 1634, una «posseduta», la nobile
decaduta Margherita Roera, esorcizzata da un frate domenicano, accusò il
plenipotenziario ducale Lelio Cauda di aver ammaliato Vittorio Amedeo I. Venne
inscenata anche una finta possessione. Ma fu subito evidente il tentativo
dell'inquisitore, Girolamo Robiolo, di screditare Cauda per mandare in frantumi
il suo sistema di potere. Vittorio Amedeo reagì e riuscì a ottenere l'arresto
dell'inquisitore da parte del provinciale domenicano. E dal Sant'Officio venne
una condanna esemplare di coloro che avevano partecipato al complotto.
Contemporaneamente, in epoca «immediatamente successiva alla chiusura della
fase più acuta della repressione antiluterana» si ebbe, poi, quella che può
essere definita una «specializzazione antiebraica» dei tribunali
inquisitoriali. Siamo qui, ha scritto Adriano Prosperi «nel cuore
dell'antiebraismo cattolico, cioè di quella lunga guerra di posizione condotta
dal cattolicesimo nei confronti di una presenza tollerata ma certamente non
amata». «Specializzazione antiebraica» o forse «specializzazione ebraica» (tema
ben approfondito in alcuni studi da Marina Caffiero), che diede una forte
caratterizzazione al Sant'Officio. Quantomeno fino al 1769, quando papa
Clemente XIV trasferì dall'Inquisizione, che la deteneva dal 1581, al vicariato
di Roma, la giurisdizione su tutte le cause non religiose o commerciali in cui
fosse implicata la locale comunità israelitica. Ma, attenzione, le cose
andarono in modo diverso da come le si è percepite. Colpiscono i numerosi casi
in cui il Sant'Officio romano nel Sei e nel Settecento, fu capace di respingere
le cause intentate dai negozianti cristiani i quali, per difendere i loro
monopoli sui mercati cittadini, inventavano ogni genere di accuse contro i
concorrenti israeliti. Marina Caffiero e Angela Groppi hanno individuato molti
casi in cui il Sant'Officio «si fece garante degli ebrei» nei confronti dei
gentili che miravano a limitarne la presenza fuori dai ghetti, «minacciando o
rompendo monopoli commerciali di cui i cristiani godevano da secoli». C'erano
stati, è vero, episodi terribili come quello dei roghi degli ebrei anconetani
di metà Cinquecento, in cui anche l'Inquisizione ebbe una parte non di secondo
piano. Orrori finalizzati ad appropriarsi dei beni degli ebrei. Ma, afferma lo
storico, «allo stato attuale degli studi non pare tuttavia possibile scorgere
entro il sistema dei tribunali centrale e locali italiani di metà e secondo XVI
secolo una sistematica opera di incameramento dei beni di persone coinvolte in
processi inquisitoriali, né un'integrazione fra procedura di fede ordinaria e
indagini patrimoniali paragonabili a quelle evidenziate dagli studi inerenti il
caso spagnolo».
E restiamo nelle Marche. Nell'agosto del 1624 l'inquisitore di Ancona ricevette
una richiesta d'aiuto da parte della comunità ebraica locale, che si riteneva
molestata dal neofito Giovan Giorgio Aldobrandino. È interessante notare come
gli ebrei preferissero rivolgersi all'Inquisizione piuttosto che al vescovo.
Ritenevano evidentemente che il tribunale del Sant'Officio «fornisse loro
maggiori garanzie di correttezza procedurale rispetto all'asserita rapacità di
quello vescovile». E infatti l'autorità diede loro ragione. Con l'inquisitore
che denunciava come le cause del Sant'Officio alla corte episcopale di Ancona
si facessero «malissimo, perché non vi è segretezza et ogni cosa è venale, et
in cambio di trattarle santamente servono per fare estorsioni de' denari (che se
nella corte episcopale si facessero le cause del Santo Officio gratis, et pro
Deo amore, come in questo santo tribunale, non sarebbono così solleciti in
procurare dette cause con dare anco buona mano o stipendio a denuncianti» . E
si riconosceva il torto di un altro neofito, Paolo Savello, che aveva accusato
un ebreo per stupro ad esclusivo scopo di lucro. Savello, secondo
l'inquisitore, aveva fatto «questa inventione diabolica per cavarli (all'ebreo,
ndr ) danari dalle mani, fingendo che ne sia accusato all'Inquisitione». Per
merito dell'Inquisizione venivano alla luce personaggi all'interno delle corti
episcopali, specializzati in pratiche quali «coprirsi del Santo Officio e sotto
il suo nome con false iniuntioni rubbare li denari alli poveri hebrei». Il caso
di Ancona, secondo Maifreda, «da un lato richiama la consumata abilità degli
israeliti, frutto di plurisecolare necessità, nello scivolare tra le maglie
giurisdizionali dei tribunali ecclesiastici e fra questi e le corti e
magistrature secolari, a scopo autodifensivo; dall'altro dimostra però che i
rapporti fra Inquisizione e comunità ebraiche furono più plastici di quanto non
evidenzi l'analisi dei processi fondati su aspetti strettamente religiosi».
Già Grado Giovanni Merlo ne Il cristianesimo medievale in Occidente (Laterza)
ha fatto notare come il ricorso agli strumenti di coercizione violenta non sia
stato determinante nella vittoria della Chiesa romana sugli eretici. Per quanto
«il pubblico non specialista, come già in passato eruditi mossi da, espressi o
sottaciuti, intenti polemici» avverte Maifreda «possa inevitabilmente essere
sedotto dalla miscela di attrazione e repulsione suscitata dalla dimensione
cruenta dell'operato inquisitoriale, è oramai da ritenersi superata
un'impostazione del discorso sull'Inquisizione imperniata sulla
contrapposizione fra apologetica e Leyenda negra». Lo storico, però, poi mette
le mani avanti: la sua «lettura aperta del funzionamento dei tribunali
dell'Inquisizione non si propone assolutamente di schiacciare il loro operato
sulla mera dimensione economica, ciò che sarebbe scorretto sotto il profilo
epistemologico oltre che, allo stato attuale della documentazione e delle
ricerche, rigorosamente indimostrabile». Tale modo di guardare
all'Inquisizione, però, «può consentirci di dischiudere l'interpretazione
dell'operato dei tribunali di fede a una pluralità di variabili e a una
circolarità di decisioni e funzioni, i cui molteplici presupposti e conseguenze
sono da vagliare caso per caso». E, talvolta, sezionando anche il singolo caso.
Meritoriamente.
(Per capire il modo in cui sono andate davvero le cose
bisogna osservare come si sono mossi i soldi. Un principio che, secondo Germano
Maifreda, ben si applica all'Inquisizione, una storia sviluppatasi per due
secoli e mezzo: dalla nascita della Congregazione del Sant'Officio (1542) alla
fine del Settecento. E che ora fa da spina dorsale al libro originale e
intelligente di Maifreda, I denari dell'inquisitore. Affari e giustizia di fede
nell'Italia moderna , che esce oggi per Einaudi. Quante persone sono state
coinvolte in questo non breve percorso? Andrea Del Col, ne L'Inquisizione in
Italia dal XII al XXI secolo (Mondadori), ha stimato che i processi di cui qui
stiamo parlando furono tra i 50 e i 75 mila. E gli imputati tra i 200 e i 300
mila. Le loro storie, se ben passate al setaccio, ci svelano aspetti inediti
(o, comunque, fin qui mai analizzati in sé) dell'entrata di Chiesa ed Europa
nella modernità. Tanto più che, come scrive Maifreda, le confische e le altre
pene pecuniarie furono, per gli inquisitori, «ben più che una fonte di denaro».
Anzitutto «esse costituirono un agile strumento di amplificazione del potere
della giustizia di fede, la quale, deprivando persone di tutti i ceti sociali
delle proprie sostanze e spezzando la trasmissione ereditaria di casate di
grande prestigio e visibilità, sanciva tangibilmente la propria supremazia su
alcune delle più antiche e prestigiose istituzioni sociali dell'Antico Regime:
la persistenza del cognome, la conservazione unitaria e la trasmissione intatta
del patrimonio alle generazioni successive». Oltre tutto la «confisca dava agli
inquisitori l'opportunità di procurarsi informazioni non emerse nell'ambito del
processo già concluso e aprire, così, nuove procedure offensive».
Le pene pecuniarie costituirono, dunque, «un cruciale strumento di alleanza e
di dialogo — anche, ma non solo, nei termini della contesa — fra tribunali
ecclesiastici e autorità secolari», che si occupavano materialmente
dell'incameramento dei beni. Chiusa la fase del processo inquisitoriale,
condotto da autorità ecclesiastiche sotto un manto di segretezza difficilmente
penetrabile, la giustizia di fede, al momento della confisca, «si schiudeva
alla piena visibilità sociale e dialogava compiutamente con le autorità
secolari, sviluppando un linguaggio politico e un progetto repressivo comuni».
Laddove si comprende che tutto ciò rappresentò per il Sant'Officio non solo una
rilevante fonte di entrata, ma anche (e soprattutto) un'occasione di
negoziazione politica con i governi locali. Il tutto in un'epoca assai
particolare. L'epoca in cui nacque la Congregazione del Sant'Officio e in cui
si consolidò la gestione economica della sua rete territoriale, scrive
Maifreda, «fu la stessa che vide — a fronte di una demografia in crescita,
dell'aumento dei consumi e dei prezzi e di un'espansione dei commerci infra e
interregionali, non accompagnata da un adeguamento dell'offerta di credito
bancario in senso proprio — un crescente numero di persone e istituzioni
familiarizzarsi con tecniche finanziarie anche sofisticate e procedere a
concessioni di denaro a prestito». Si stabilì in tal modo «un tessuto
connettivo di crediti minuti e diffusi, che funzionava in base a meccanismi
sociali di fidelizzazione reciproca e di circolazione di informazioni e
garanzie reputazionali fra prestatori e debitori... Meccanismi entro cui la
detenzione di una pubblica fama di ortodossia religiosa giocava sicuramente un
ruolo determinante».)