venerdì 5 dicembre 2014

A Cesare quel che è di Cesare

A Cesare quel che è di Cesare

In questo articolo

Pompeo Marchesi,«Monumento a Cesare Beccaria», Palazzo di Brera, Milano 
 
Pompeo Marchesi,«Monumento a Cesare Beccaria», Palazzo di Brera, Milano
Nel 1765, in una sorta di lungo editoriale della rivista «Il Caffè» intitolato «De' fogli periodici», Cesare Beccaria osservava che «il vero fine di uno scrittore di fogli dev'essere di rendere rispettabile la virtù, di farla amabile, d'inspirare quel patetico entusiasmo per cui pare che gli uomini dimentichino per un momento se stessi per l'altrui felicità». «Ma questo scopo – aggiungeva – dev'essere piuttosto nascosto che palese, coperto dal fine apparente di dilettare, di divertire, come un amico che conversi con voi, non come un maestro che sentenzi». E ciò anche laddove si discorra dei temi che – oltre la moda, la letteratura, l'umorismo, gli apologhi e tutti gli espedienti volti a rendere leggera e gradevole la lettura – egli riteneva fossero decisivi per alimentare la felicità, pubblica e privata: «l'agricoltura, le arti, il commercio, la politica». E poi «la fisica e la storia naturale», miniere inesauribili di idee che devono «fermentare» nella mente di chi legge, e che lo scrittore deve «rendere a chiarezza e precisione, e quasi in sugo ed in sostanza» allo scopo di non annoiare nel rendere pubbliche sia «le cognizioni positive» «utili al maggior numero» sia – non meno importanti – quelle «negative» volte «a distruggere i pregiudizi e le opinioni anticipate, che formano l'imbarazzo, il difficile e, direi quasi, il montuoso e l'erto di ogni scienza».
Dei delitti e delle pene era stato pubblicato un anno prima, nel 1764, ed è un inno a questa idea dei Lumi che lavorano «più a distruggere che ad edificare, e così facendo edificano insensibilmente», consapevoli che «ad ogni verità grande ed interessante, mille errori, e mostruose falsità stanno d'attorno che la inviluppano e la nascondono agli occhi non sagaci».
Sono trascorsi duecentocinquant'anni dalla pubblicazione di quel piccolo formidabile trattato, distruttore di pregiudizi ed edificatore di diritti e di idee innovative che ancora brulicano nelle nostre teste. E in questi due secoli e mezzo Cesare Beccaria è stato esaltato, ma anche trascurato e frainteso, in molte sue linee di pensiero. Come scrisse Luigi Settembrini, Dei delitti e delle pene ha rappresentato più che l'uscita di un libro un momento epocale, segnando «il tempo in cui fu abolita la tortura e le atrocità nei giudizi criminali, e si cominciò a pensare se è proprio necessaria la pena di morte ai colpevoli». Intellettuale illuminista, antesignano negli sviluppi di molte correnti del pensiero moderno, come il contrattualismo, il liberalismo e l'utilitarismo, Beccaria, insieme a Machiavelli il più conosciuto al mondo tra i pensatori italiani, supera con la sua riflessione e produzione teorica i confini tra le varie discipline e certamente sfugge a una definizione univoca. Jeremy Bentham lo considerava tra gli ispiratori più importanti dell'utilitarismo, per la formulazione del celebre principio incentrato sulla «massima felicità per il maggior numero di persone», ma in Beccaria non può essere affatto trascurata l'attenzione per i diritti individuali e il riferimento al contrattualismo alla Rousseau, con echi che giungono oggi fino alle "teorie della giustizia" alla John Rawls, come ricorda il filosofo del diritto Mario Ricciardi nell'ultimo numero della rivista Philosophical Inquiries (www.philinq.it). Ma è anche vero che il calcolo razionale caro agli utilitaristi permette a Beccaria di desacralizzare il diritto scindendo per primo, e una volta per tutte, l'idea (giuridica) di reato dal concetto (etico-religioso) di peccato, e che proprio il suo ragionare da economista gli fornisce la chiave per valorizzare al massimo grado i diritti individuali in un contesto drammatico e ancora oggi delicatissimo come quello del sistema sanzionatorio penale.

Che l'eredità intellettuale di Beccaria non possa essere circoscritta a questo fenomenale piccolo trattato – dove troviamo perfettamente enunciati i principi della certezza del diritto e della pena, del grado di deterrenza dei diversi tipi di punizione, della velocità dei processi come ingrediente fondamentale per una giustizia giusta – lo dimostra la monumentale opera avviata da Luigi Firpo e Gianni Francioni con l'edizione nazionale delle Opere di cui uscirà a breve il terzo volume dedicato agli Scritti economici (Mediobanca). Come sostiene Carlo Scognamiglio Pasini nel suo L'arte della ricchezza (uscito in questi giorni per Mondadori education), Beccaria è stato in realtà «il più profondo e il più originale degli economisti italiani». Scognamiglio abbraccia appieno in questo il giudizio di Schumpeter che definiva Beccaria "l'Adam Smith italiano". In una nota critica del curatore Gianmarco Gaspari agli Scritti economici si legge che Beccaria avrebbe anticipato Smith nella formulazione del concetto di "divisione del lavoro". Scogmamiglio invece ricorda che due furono le idee di Beccaria considerate eversive dai suoi contemporanei: la prima è quella, già menzionata, della distinzione tra crimini e peccati, che spinse la Chiesa a mettere subito all'Indice Dei delitti e delle pene. La seconda è un'idea che si troverà anche nella Ricchezza delle nazioni di Smith (1776) e che «rivoluzionerà il sapere economico aprendo la strada alla moderna economia politica, al sistema dell'economia di mercato, e più tardi anche all'antitesi rappresentata dal socialismo di Marx ed Engels». Espressa chiaramente da Beccaria nelle lezioni che tenne tra il 1769 e il 1771, è l'idea secondo cui la vera fonte della ricchezza delle nazioni non è costituita dalle risorse naturali e dall'agricoltura, ma trae invece origine dal lavoro umano e dagli strumenti che ne incrementano la produttività. La classe sociale cui Beccaria apparteneva – aristocratici e proprietari terrieri – non poteva subire un simile attacco alla rendita, e spinse Beccaria ad abbandonare l'insegnamento e il progetto di pubblicare il proprio testo sull'economia, che uscirà postumo nel 1804, e ad accettare per il resto della sua vita solo compiti operativi e amministrativi. Che è sempre un bel modo per depotenziare le menti più fervide e innovative.

giovedì 27 novembre 2014

Amleto e Don Chisciotte in cerca della saggezza

Cervantes e Shakespeare

Harold Bloom spiega perché il bardo inglese e lo scrittore spagnolo sono dopo Dante i principali autori occidentali

Amleto e Don Chisciotte in cerca della saggezza

(1547-1616) (1546-1616) Il principe di Shakespeare e il cavaliere di Cervantes, simboli della condizione umana MAESTRI Soltanto Dickens ha saputo raggiungere lo stesso fascino universale

Dal nuovo saggio di Harold Bloom, «La saggezza dei libri» (Rizzoli, pagine 382, euro 17) anticipiamo un brano tratto dal capitolo dedicato al confronto tra Cervantes e Shakespeare Cervantes e Shakespeare condividono il primo posto fra tutti gli scrittori occidentali vissuti dal Rinascimento a oggi. Gli individui più creativi degli ultimi quattro secoli sono shakespeariani o cervantiani o - più spesso - riprendono elementi di entrambi gli autori. In questo libro, mi propongo di considerarli come i maestri di saggezza della nostra letteratura moderna, alla pari dell' Ecclesiaste e del Libro di Giobbe, di Platone e di Omero. La fondamentale differenza tra Cervantes e Shakespeare può essere esemplificata mettendo a confronto Don Chisciotte e Amleto: sia il cavaliere sia il principe sono alla ricerca di qualcosa di indefinito, per quanto possano asserire il contrario. Qual è il vero obiettivo della ricerca di Don Chisciotte? Penso che non ci sia una risposta. Quali sono gli autentici motivi che spingono Amleto? Non ci è dato di saperlo. Poiché la ricerca del magnifico Cavaliere di Cervantes ha uno scopo e una risonanza cosmologica, nessun obiettivo sembrerebbe al di là della sua portata. La frustrazione di Amleto è data dal fatto che gli sono concessi soltanto Elsinore e la tragedia della vendetta. Shakespeare compose un poema illimitato, in cui solo il protagonista trascende ogni limite. Cervantes e Shakespeare - che morirono quasi nello stesso istante - sono i principali autori occidentali, almeno da dopo Dante, e nessuno scrittore moderno o contemporaneo è mai riuscito a eguagliarli, né Tolstoj né Goethe, Dickens, Proust, Joyce. Non basta certo il contesto in cui vissero a spiegare la loro grandezza: l' Età dell' oro spagnola e l' Età elisabettiano-giacobina inglese hanno un' importanza secondaria quando ci sforziamo di apprezzare appieno ciò che questi due autori ci danno. W. H. Auden vedeva in Don Chisciotte un ritratto del Santo cristiano, l' esatto opposto di Amleto, che «non ha fede né in Dio né in se stesso». Per quanto le sue parole suonino perversamente ironiche, Auden era serio e penso che abbia preso una cantonata. Contro la sua tesi posso riprendere Miguel de Unamuno, il mio critico preferito del Don Chisciotte. Per Unamuno, il Santo cristiano è Alonso Chisciano, mentre Don Chisciotte è l' iniziatore dell' autentica religione spagnola, il chisciottismo. Herman Melville fonde le figure di Amleto e Don Chisciotte in quella del capitano Achab (con l' aggiunta di un pizzico del Satana di Milton, per rendere il tutto più saporito). Achab vuole vendicarsi della Balena bianca, mentre Satana, dal canto suo, distruggerebbe Dio, se soltanto potesse farlo. Stando a quanto dice G. Wilson Knight, Amleto è per noi un ambasciatore di morte. Don Chisciotte afferma che il fine della sua ricerca è quello di eliminare l' ingiustizia. E l' ingiustizia più radicale, il vincolo che tiene prigioniero l' uomo, è proprio la morte. Liberare i prigionieri è quindi il modo in cui, di fatto, Don Chisciotte combatte contro la morte. Non è possibile individuare con precisione la presenza di Shakespeare all' interno della sua opera, nemmeno nei Sonetti. È proprio questa quasi invisibilità a stimolare le ricerche di quegli zeloti che credono che le opere di Shakespeare siano state scritte da chiunque altro, tranne che dallo stesso Shakespeare. Per quel che mi risulta, nel mondo ispanico non ci sono congreghe che si sforzano di dimostrare che il Don Chisciotte sia stato scritto da Lope de Vega o da Calderón de la Barca. La presenza di Cervantes nel suo grande libro è talmente marcata che non possiamo fare a meno di riconoscere come, nell' opera, ci siano tre personalità irriducibili l' una all' altra: il Cavaliere, Sancho e lo stesso Cervantes. Con tutto ciò, quant' è astuta e sottile la presenza di Cervantes! Anche nelle sue pagine più spassose, il Don Chisciotte rimane estremamente sobrio. È ancora Shakespeare a fornirci un' illuminante analogia: anche quando è più melanconico, Amleto non abbandona mai i suoi giochi di parole o il suo umorismo inglese e lo sconfinato umorismo di Falstaff è tormentato dagli indizi che lasciano presagire il rifiuto che lo attende. Proprio come Shakespeare non si lascia vincolare dai precisi limiti dei generi drammaturgici, così il Don Chisciotte è tanto una tragedia quanto una commedia. Per quanto segni per sempre la nascita del romanzo moderno dal poema in prosa medievale e per quanto rimanga tuttora il migliore fra tutti i romanzi mai scritti, ogni volta che lo rileggo lo trovo più triste; ed è proprio questo suo carattere a trasformarlo nella «Bibbia spagnola», per riprendere l' espressione con cui Unamuno definì quest' opera, la più grande fra tutte le opere di narrativa. Tra gli scrittori di romanzi ci sono George Eliot ed Henry James, Balzac e Flaubert o il Tolstoj di Anna Karenina. Il Don Chisciotte potrà anche non essere un testo sacro, ma ci contiene a tal punto che - come con Shakespeare - non ci è possibile, per così dire, uscirne in modo da guardarlo dall' alto, in prospettiva. Noi siamo all' interno di questo grande libro, con il privilegio di poter ascoltare gli splendidi dialoghi tra Don Chisciotte e il suo scudiero, Sancho Panza. A volte facciamo tutt' uno con Cervantes ma, più spesso, siamo gli invisibili vagabondi che accompagnano la sublime coppia tra avventure e sconfitte. Se, nell' Occidente postrinascimentale, dobbiamo scegliere un terzo autore dal fascino universale, la nostra scelta non può ricadere che su Dickens. Tuttavia Dickens non vuole trasmettere ai suoi lettori una «conoscenza ultima dell' uomo», quel genere di saggezza che Melville trovava in Shakespeare e, forse, anche in Cervantes. La prima rappresentazione teatrale del Re Lear ebbe luogo in concomitanza con la pubblicazione della prima parte del Don Chisciotte. Per quanto ne dica Auden, anche Cervantes - come Shakespeare - ci presenta una forma laica di trascendenza. Don Chisciotte si considera come un cavaliere di Dio, ma ciò non gli impedisce di continuare a inseguire i capricci della sua volontà - una volontà, tra l' altro, gloriosamente eccentrica. Re Lear chiede aiuto ai numi celesti, ma solo perché li vede come vede se stesso, dei vecchi. Malconcio per gli scontri con realtà che sono ancora più violente di lui, Don Chisciotte si trattiene comunque dal sottomettersi all' autorità della chiesa e dello Stato. Quando infine cessa di rivendicare la propria autonomia, non gli rimane che tornare a essere Alonso Chisciano il Buono,e l' unica azione che gli resta da compiere è quella di morire. Il maestro americano Harold Bloom è nato a New York nel 1930. E' considerato il più autorevole critico letterario americano. Insegna all' Università di Yale ed è autore di oltre venticinque libri, tradotti in tutto il mondo. In Italia sono usciti, tra gli altri, «Il canone occidentale» (Bompiani), «Come si legge un libro (e perché)», «Shakespeare. L' invenzione dell' uomo». «Il genio» (tutti editi da Rizzoli). Il nuovo volume, «La saggezza dei libri», nasce da decenni di studi e riflessioni confluiti nella convinzione che la letteratura abbia uno scopo decisivo: aiutarci a raggiungere la saggezza. Dalla Bibbia a Omero, da Cervantes a Shakespeare, da Montaigne a Freud, Bloom guida il lettore attraverso una serie di esempi letterari in grado di dare un senso alla nostra vita.
Bloom Harold
Pagina 37
(6 ottobre 2004) - Corriere della Sera


Nel 1612, l'autore di Giulietta e Romeo scrisse Storia di Cardenio
Il testo andò perduto durante l'incendio che distrusse il Globe Theatre

"Ecco il Chisciotte firmato Shakespeare"
Giallo sul ritrovamento di un dramma

DAL nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI


<B>"Ecco il Chisciotte firmato Shakespeare"<br>Giallo sul ritrovamento di un dramma</B> Don Chisciotte e il fido scudiero visti da Picasso
È PROBILMENTE l'accoppiata più forte della letteratura mondiale: il padre di tutti i commediografi e quello di ogni narratore, William Shakespeare e Miguel Cervantes. Immaginiamo che l'autore di Giulietta e Romeo abbia scritto un dramma ispirato dal Don Chisciotte di Cervantes.

Immaginiamo che questo dramma sia andato in scena soltanto due volte, al tempo di Shakespeare, e poi il testo sia scomparso in un incendio del Globe Theatre di Londra; che quattro secoli più tardi un direttore della Royal Shakespeare Company riesca miracolosamente a ritrovare il dramma andato perduto e decida di metterlo in scena con una produzione ispano - britannica, in omaggio ai due formidabili scrittori uniti dalla singolare vicenda.

È una storia che fa sognare e che diventerà realtà, stando a quanto annunciato l'altro giorno dal direttore della Royal Shakespeare Company, Gregory Doran, a Madrid. Ma è una storia che contiene anche un mistero: cosa ha esattamente ritrovato, il signor Doran?

"Certamente non un manoscritto polveroso su uno scaffale", dice un portavoce della Royal Shakespeare Company interpellato da Repubblica qui a Londra. Per capirne di più, come in un giallo che si rispetti, conviene fare un passo indietro. Qualche notizia certa su un'opera di tal genere esiste. Il Don Chisciotte arriva in Inghilterra nel 1612, sette anni dopo la pubblicazione in Spagna, tradotto in inglese da John Shelton. Basandosi su un episodio del romanzo di Cervantes, quello stesso anno Shakespeare scrive un dramma intitolato Storia di Cardenio, aiutato da un altro commediografo, John Fletcher.

Il "Cardenio" viene messo in scena due volte l'anno seguente al Globe Theatre, che viene però distrutto pochi mesi più tardi da un incendio (quello che i turisti visitano sulle rive del Tamigi è una copia) in cui vanno bruciati molti originali delle commedie del grande bardo, tra cui anche quella ispirata dal Don Chisciotte. Da allora si perdono le tracce del manoscritto, al punto da insinuare perfino il dubbio che sia mai esistito.

Quarant'anni dopo la prima rappresentazione, nel 1653, uno storico dell'arte racconta di avere visto una copia del "Cardenio" firmata sul frontespizio da Shakespeare e Fletcher. Poi il giallo fa un altro balzo in avanti: nel 1727 il drammaturgo Lewis Theobald sostiene di avere scritto il suo dramma Double falshood (Doppia menzogna) traendo ispirazione dal "Cardenio".

E veniamo al presente. Già nell'ottobre scorso Doran accennò vagamente al "ritrovamento" dell'opera perduta di Shakespeare. L'altro ieri, secondo quanto riporta il quotidiano spagnolo El Mundo, è stato più esplicito: "Siamo riusciti ad autenticare uno dei manoscritti sulla cui veridicità si facevano infinite supposizioni. Siamo riusciti a trovare degli originali affidabili. C'è un indizio molto chiaro. Confrontandolo con la prima edizione in inglese del Don Chisciotte, ci sono alcuni monologhi quasi identici. Shakespeare trascriveva spesso alla lettera dialoghi da testi originali, per esempio con Plutarco". Ma il giallo non verrà chiarito, né il mistero svelato, sino a quando il "Cardenio" ritrovato non andrà in scena, nel 2009.

(25 maggio 2007)

martedì 4 novembre 2014

Amleto




I Temi

      Si può fare di Amleto una lettura  superficiale  e giudicarla come  una semplice   tragedia della vendetta. Il padre di Amleto, re di Danimarca, è stato ucciso da  suo fratello, Claudio. Quest'ultimo, conculca  i  diritti di  successione di Amleto figlio, appropriandosi  a sua volta della corona e della moglie  di Amleto padre. Lo spettro di Amleto padre rivela tutta la macchinazione al figlio; tutti gli elementi della tragedia della vendetta sono dunque presenti.  Amleto ha un obbligo: vendicare l'omicidio, l’usurpazione  e l'adulterio. Ciò che fa uccidendo Claudio alla fine della tragedia.
Ma è chiaro che il tema della vendetta è soltanto un pretesto che Shakespeare utilizza per mescolare tutta una serie di temi universali, dei quali si può dare questo quadro sintetico:
- le relazioni padre-figlio, madre-figlio;
- le relazioni amorose nei suoi aspetti poetici ed angelicati (Amleto-Ofelia) e in quelli adulti e carnali (Claudio-Gertrude);
- le relazioni di forza al  vertice  di uno stato;
- la pazzia reale, la pazzia finta, la dissimulazione;
- la giovinezza e la vecchiaia;
- l'azione e l'inerzia;
- il potere è  corrotto o il potere corrompe?
- le grandi questioni esistenziali "To be or not to be"; l'esistenza di un dio;  
- il senso e il significato del teatro e la sua relazione paradigmatica con la vita: c'è tanta vita nel teatro quanto teatro nella vita.

Amleto eroe umano e teatrale
Tutti questi temi, ed   altri ancora, si trovano in Amleto. Ma è importante ricordarsi che Amleto è al centro di ogni tema  e che anzi è egli stesso che li  affronta e li  mette a fuoco. Non c’è nella storia della letteratura mondiale un personaggio così centrale, così ricco di sfumature, così complesso e sfuggente.
Le letture dell’ Amleto sono innumerevoli e dipendono dalla personalità del lettore della tragedia, e - trattandosi appunto di un’opera destinata alla rappresentazione-, dalla personalità del regista e soprattutto dell'attore chiamato a dargli vita.
Amleto è allo stesso tempo un personaggio che si impone a noi con la sua complessità ed il suo carattere misterioso, al limite dell’indecifrabile, e sul quale la nostra personalità può venire a modellarsi. È uno dei personaggi rari del teatro, forse il solo, che permetta uno scambio costante. Ciascuno di noi, indipendentemente dalla sua età, può riconoscersi in Amleto e può lavorare al mito di Amleto,  alla sua immagine.
Laurence Olivier ha detto che potrebbe recitare Amleto per cento anni e trovargli un nuovo senso ad ogni rappresentazione; il personaggio è ambiguo, quasi inafferrabile, in effetti, come lo è la lingua della pièce. Ma quest'ambiguità rafforza la ricchezza tematica e polisensa dell’opera più di quanto la  impoverisca; ed è precisamente questo mistero e questa ricchezza tematica che permette ad ogni lettore, ed ad ogni attore, di consegnarsi ad una lettura personale ed intima del personaggio, di fare propria la sua complessità, come avviene per ogni grande opera. 

Quali sono dunque le grandi caratteristiche di questo personaggio così affascinante e indimenticabile? Le interpretazioni sono millanta. Citeremo qui soltanto le principali.






Il dilemma e l'indecisione
      Gli eroi delle grandi tragedie classiche sono tutti posti davanti  a scelte  e  obbligati a prendere una o l’altra direzione. Ma  una volta che la   decisione è presa, il resto necessariamente segue, accompagnato da atti di nobiltà grandiosi o, per altro verso, di abiezione estremi. Nell’ Amleto, nulla è semplice, tutto è problematico. Il dilemma nel quale si inciampa è non di sapere  quale scelta egli deve fare, ma all'opposto se la farà. Secondo alcune interpretazioni, Amleto non giunge ad alcuna decisione e diffonde così l'immagine dell'individuo indeciso, inattivo, passivo, l’inetto romantico incapace di agire: al limite, il chiacchierone senza costrutto che si compiace delle parole. Jean-Louis Barrault lo ha definito "l'eroe dell'esitazione superiore."   È senza dubbio per questo che T. S.  Eliot vedeva nell’ Amleto una tragedia mancata poiché, diceva, essa presenta un personaggio " dominato da un pathos      incomprensibile   in quanto eccede i fatti così come appaiono."  Perché tanta emozione e così poca azione?  È la sua natura, diranno alcuni: ossia l'opposto esatto  di un Macbeth . Altri lo vedranno bloccato da un complesso di Edipo che fa di lui un adolescente attardato, un po' pazzo, calcinato in sterili  ruminazioni esistenzialiste (nessuno osa immaginare Amleto re!) ; altri ancora lo vedono sofferente   per un'overdose di castità. Dunque sospettano un dramma sessuale più che un dramma della volontà. E avanzano ipotesi di puritanesimo spinto se non di omosessualità.  Ma forse l’interpretazione che rende più giustizia ad un tale personaggio è affermare che   questo dramma  shakespeariano  tende in effetti  allo stesso tempo all'individualità estrema ed all'universalità   e  spinge a interpretare l’opera  come una rappresentazione simbolica della lotta tra l'uomo ed il suo destino, le sue tentazioni e le sue contraddizioni.

All' interpretazione di Amleto eroe inattivo se ne  oppone un'altra. Occorre osservare inizialmente che Amleto, per quanto loquace è in effetti  molto attivo. Se è vero che il filo dell'azione, in generale, gli è imposto da altri personaggi o dagli eventi, egli nei fatti agisce. Ascolta lo spettro (ciò che i suoi amici rifiutano di fare), assume un atteggiamento al limite del disprezzo riguardo al re, rinvia violentemente Ofelia, sventa uno dopo l'altro gli intrighi che mirano a scoprire il suo gioco, e  architetta  uno spettacolo teatrale che è soltanto una trappola nella quale spera di fare cadere il re;  aggredisce la   madre in una scena dalla violenza inaudita;  arriva alle mani con Laerte. Infine, e forse soprattutto per ciò che riguarda la  violenza fisica, che non è poco per un uomo tacciato di inazione - uccide Polonio,  invia i suoi amici Rosencrantz e Guildenstern alla morte, uccide il re ed è indirettamente responsabile della morte di Laerte.

Non è impossibile che Shakespeare abbia così voluto rovesciare le convenzioni della tragedia classica, troppo carica  di stereotipi e di parti assegnate una volta per tutte. Anche il suo Macbeth, il suo Otello o il  suo Bruto, e il suo re Lear, fin dal primo atto, sono  così bene imprigionati in atteggiamenti convenuti e dinamiche preordinate che ne risultano  perfettamente prevedibili; l'intrigo progredisce dalla causa all'effetto, con una  conclusione che ha dell’ inesorabile.
Nulla di tutto ciò in Amleto; Shakespeare ci sorprende ad ogni snodo d’azione;   l'imprevedibile   domina ad ogni atto ed anche la scena della mattanza  finale ha soltanto una relazione molto labile  con gli elementi iniziali del teorema  fornitici nel primo atto. Certamente, Amleto uccide il re ma lo uccide perché quest'ultimo, per sbaglio, ha appena ucciso Gertrude; ed è senz’altro curioso che in questo frangente non proferisca motto sull'assassinio del padre, che dovrebbe essere il movente e la conclusione logica della sua azione; com’ è altrettanto  curioso che  nessuno alla corte di  Danimarca   sembra commuoversi per questa  enorme carneficina  dove, in alcuni secondi, scompaiono tutti i personaggi principali del regno. Nessuno fuorché  Shakespeare, il quale  pur fingendo di mettere in scena i grandi temi della tragedia classica (la vendetta, la pazzia, la lotta per il potere, ecc.), forse ha  voluto scuotere le certezze che procurano ogni volta questi temi e   abbia  scelto, in ultima analisi, di presentare il solo tema che per lui ha un senso: il dubbio, l'incertezza. In ciò, sarebbe stato un precursore del teatro del ventesimo secolo: il teatro dell'assurdo nel 1601!


Amleto eroe tragico moderno

Amleto é stato recentemente analizzato come figura chiave nella drammatica svolta epocale dal mondo classico ( a dalle supposte certezze di quello medioevale ) verso i dubbi e le angosce della modernità, o più precisamente di quella civiltà che i neostoricisti americani definiscono early modern.
Al centro del dramma si posizione un eroe tragico, un eroe problematico, diviso e lacerato da contrasti interiori, posto in situazioni di irrisolta tensione e conflittualità.
Quando Amleto scopre che la realtà non coincide affatto coi suoi ideali, rimane disgustato. E’ un giovane colto, puro, animato da grandi ambizioni spirituali.
Incapace di sopportare il peso del male, offeso dal suo trionfo, egli nella malinconia trova rifugio, ma non riposo. La sua coscienza é fonte di innumerevoli pensieri, speculazioni sulla vita e sulla morte, dubbi, rimproveri, propositi. Egli dovrebbe obbedire al padre e alle leggi dell’onore, ma lo slancio é impedito dal pensiero malinconico della vanità del tutto, e la volontà é frenata da mille considerazioni. Il carattere nobile entra in conflitto con l’umore cupo: ciò che il primo accende, il secondo spegne. Il moralismo e il senso del dovere non riescono a prevalere perché, a parte l’effetto avvilente della malinconia, esigono il compimento di un’azione pur sempre orribile, un omicidio, per di più di difficile attuazione. Nessuno conosce infatti la colpa di cui si é macchiato re Claudio nei confronti del padre di Amleto, e quindi non si spiegherebbe un atto così turpe da parte del giovane.
L’omicidio apparirebbe sospetto, interessato, dal momento che non troverebbe sostegno in una motivazione plausibile: l’onore del principe verrebbe infangato, e la vendetta, lungi dall’essere considerata come un doveroso atto di giustizia, assumerebbe l’aspetto di un volgare assassinio.
Amleto viene a conoscere dal fantasma del padre le circostanze della sua morte, mentre versa in uno stato di afflizione e di amarezza. Claudio, in un colpo solo, ha spodestato il vecchio sovrano e il legittimo erede al trono, ha distrutto una famiglia, attirando a sé una donna che il figlio non immaginava capace di tanta insensibilità.
Tutto ripugna ormai l’animo di Amleto, che, deluso e impotente, generalizza, rivestendo di pessimismo e di sospetto ogni persona ( escluso il suo amico Orazio ), lui che pure per natura sarebbe un fiducioso. La repulsione per il vizio e l’ipocrisia imperanti nel mondo si fa repulsione per la vita stessa. Ma il suicidio é punito dalla religione e il senso del dovere assume le sembianze dello spettro paterno, che prima gli fa intendere e poi gli ricorda la necessità di consumare la vendetta.
Amleto é un uomo che ama e che pensa, e che intanto però non agisce, e se agisce lo fa con ingegno ( la finzione della follia e la recita dei commedianti) o per impulso ( l’uccisione di Polonio e la lite con Laerte nella fossa).
Non c’è pertanto una vera e propria connessione tra pensiero e azione: é evidente il suo stato di crisi. Si sente chiamato ad un compito per cui non è tagliato, e tuttavia è dotato di un animo nobile che gli impedisce di negarsi all’impresa. Non è che Amleto non sia capace di azione in assoluto, come la critica romantica per lungo tempo ha sostenuto con ostinazione: non é capace di compiere “quella” azione in quella particolare “ circostanza”. Egli ha in sé un desiderio di purezza così alto che la prospettiva di un eventuale scontro con il vizio, sia pure al fine di eliminarlo, gli appare difficile da accettare. Eppure sa bene che così non dovrà essere; perciò non si sottrae, pur avendone la tentazione: ma intanto rimanda il momento risolutivo.
Se Amleto dopo quattro secoli continua ad attrarre e a commuovere é perché non é altro che la summa della vita. Forza e debolezza, impulsività e calcolo, sensibilità e riflessione: tutto é estremo in lui, che con la sua bontà d’animo e il suo idealismo si pone sulla scena a testimoniare, assieme a un dramma personale, i conflitti e le aspirazioni di ogni uomo che abbia una concezione alta dell’esistenza e intanto debba sperimentarne la corruttibilità.
Amleto é uomo moderno perchè dubita, facendo suo quel principio che valse a Cartesio la prerogativa di fondatore del Razionalismo.
Il genio di Shakespeare, lavorando sul racconto di Belleforest e sulla tragedia di Kyd, ne ha fatto una figura più tormentata, una figura della vita interiore ricca e sfumata: moderna quindi. L’autore é consapevole del profondo mistero della vita e della morte, e lo mette in scena. La sua arte sa essere impetuosa e delicata, e loquente e scarna, arguta e commuovente.
Non c’é corda che non tocchi, non c’é registro che non usi. Perchè la vita é complessa, appunto, e non riducibile ad una forma fissa.
Amleto, personaggio storico rivestito di tante leggende, é giunto fino a noi per chiederci di interpretarlo, per sfidarci ad un confronto. Con la sua debolezza, con i suoi dubbi, ci rispecchia. Morendo, come ogni eroe, ci induce a domandarci una volta in più che cosa sia mai la vita.


giovedì 30 ottobre 2014

IL PURGATORIO e IL PARADISO nella Divina Commedia

IL PURGATORIO e IL PARADISO nella Divina Commedia
Mercoledì 12 e 26 NOVEMBRE ore 18.00
Il Paradiso e il mondo della luce: i cieli, i beati,
l
Empireo
con temi e personaggi e lettura di passi.
Dove e quando
Biblioteca di Stresa,
 
dae,
ore 18.00
Sistema Bibliotecario Verbano
-
Cusio
-
Ossola, Via Vittorio Veneto 138, 28922 Verbania, tel. 0323 401510
-
fax 0323 408091
-
e
-
mail:
direzione.verbania@bibliotecheVCO.it

giovedì 16 ottobre 2014

La Repubblica dell'utopia-ven.7 novembre a Verbania, Teatro Sant'Anna


LA REPUBBLICA DELL’UTOPIA, sera del 15 ottobre 2014, Teatro Galletti di Domodossola.

Per chi come me è nato negli anni ’50,l’infanzia fu vissuta nel sentore d’esser stati generati da una giovane madre, e padre, che s’erano incontrati  nei cuori  giovani ,che avevano ritrovato la speranza con la Liberazione.
Solo sette anni prima, quello che sarebbe diventato mio padre, con altri giovani ventenni o poco più , sfuggiva ai rantolanti , mortiferi comandi di un regime sorto sul culto del teschio a San Sepolcro e destinato allo stesso modo a finirvi.
La corona dei monti prealpini, dallo Zeda e Marona attraverso la Valgrande,fino all’alta Ossola,divennero il baluardo roccioso di questa fuga, di questa r-esistenza. Dall’inospitalità fredda della montagna si apriva  l’unica ospitalità possibile per l’antifascismo militante oppresso.
Nel cuore intimo di quegli anni ,sprazzi di liberazione, di cui Domodossola, qui ,fu il battito più sentito.
A distanza di settantanni ,gli artisti della Brigata Puglisi hanno evocato quel sentore. Quell’emozione passa e ci coinvolge nel corso della rappresentazione proprio qui, nel teatro dove  trovò luogo reale la repubblica utopica dell’Ossola.
La presenza del sindaco Cattrini ,promotore dell’evento ,è sobria, stringata nella presentazione, controcorrente rispetto alle mode del vuoto narcisismo politico contemporaneo. E’ nello stile, potremmo dire,degli intellettuali come Vigorelli ,che per quaranta giorni organizzarono un embrione di nuova civiltà sociale, una piccola città-stato in suolo celtico-lepontino  , dove i fatti non rimanevano svuotati da termini magniloquenti quanto vani.
Ettore Puglisi, già autore-protagonista con la Brigata di “Banditi e partigiani” (Verbania, 2011),poliedrico musicista e cantautore, siciliano cresciuto a Verbania, rivolge inizialmente un omaggio alla sua terra d’origine nella figura dei fratelli Di Dio:come nell’opera precedente, sembra indicarci i l senso di un essere comune italiano ,che nell’emigrazione testimonia l’italianità e anche la sua problematicità. Sfilano al seguito , nella narrazione, le altre guide del coraggio, Superti, Muneghina, Arca, tutti coloro che seppero osare.
La truppa che accompagna Ettore, sono i musicisti  Giorgio Fassi, Roberto Sgaria, Matteo Bernocchi,Luca Maglio,il loro fuoco amico proviene da chitarre,flauti, fisarmoniche, batteria, è canto celebrativo, festoso ed elegiaco di un’epoca dove la canzonetta d’amore ebbe infine la meglio sui trucidi inni di battaglia, sui canti di una gioventù che da trent’anni, dal’14, andava alla morte,”la meglio gioventù la va sottoterra”. Quello sfondo acustico dovette risuonare, variamente,in quella fine estate,ed autunno del’44, farsi poi drammatico,sofferto con la caduta della repubblica:l’audio prende la nostra attenzione, giungendo insieme alla visione.
Le immagini, proiettate da Domiziano Varini, ci portano dentro la scena che nelle piazze, vie, uffici, scuole della città ossolana ,evocava l’ipotesi di un mondo  civile futuro. Vediamo fisionomie che possiamo immaginare con noi, ai giorni nostri.
L'intensa presenza femminile, a cui Ettore si dimostra per natura molto sensibile, esprime un'umanità che si libera da secoli d'oppressione e subalternità,per ingentilire con il proprio carattere la società dell'avvenire. Le attrici Giuliana  Buggin e Olivia Curti, la giovanissima Petra,la collaboratrice alla regia Lorenza Baruffaldi,figure,”personae” delle donne antifasciste e staffette partigiane ,nelle case di pietra,per i sentieri  valligiani e alpestri.
Nello spazio,nel tempo dell'attualità,questa sera a Domodossola,ci   commuoviamo,rimembrando quegli eventi: dopo la festa per il blitz della liberazione,il successivo esodo al ritorno dell'armata nazifascista,allora fotogrammi d'oggi si sovrappongono nella nostra mente ,da Lampedusa a Kobane, neri d'Africa e curdi inseguiti dal terrore con cui miliziani,politici,finanzieri , faccendieri dell'internazionale dell'estorsione,ricattano la loro,la nostra vita di gente con ipotesi di esistenze discrete,fondamentalmente oneste e pacifiche,in cui ciascuno riceva in equa  proporzione di quanto produca.
Nei tempi grami,quando la  follia del crimine palese o mascherato ha il sopravvento,non resta che la solitudine ,come in montagna, come per i partigiani , i fuggiaschi di ogni tempo ed epoca. Ma in montagna si colgono anche fiori, e il “fiore del partigiano”è la stella alpina, la stessa  del caduto della prima guerra ancora trent'anni prima,in Carnia o sul Carso, come in Ossola...e ci sarà sempre una giovane dalla bellezza commovente,che salendo per il sentiero troverà una croce e una stella,in una mattina tersa ed emozionata di un giugno...magari sarà l'unica a vederla,appartata..la stella lanuginosa  con stille di sangue vivo,quella stella che sa dell'amore della ragazza con il partigiano caduto, per parafrasare le toccanti parole e note che il friulano Arturo Zardini espresse un secolo  fa, nei tempi crudeli  della prima grande guerra.
Cos'è infine questa commozione?E'sentore d'orgoglio per quella realizzazione d'allora qui in alto Piemonte e per quelle di tutti i tempi in ogni parte del mondo; è  in alternanza pianto, risentimento,  per la sopraffazione che continua,ritorna, come in un circolo vizioso, ostacolando le repubbliche,le liberazioni,con opzione di dittature aperte o mascherate.....
I presenti, quasi un nucleo raccolto, testimoniano l'affetto e l'idea sempiterna per un mondo migliore, anche nella notte economica della globalizzazione sregolata e micidiale...nella notte ossolana un atomo, una scintilla di r-esistenza, la cui energia si connette a quella di situazioni simili nel mondo.
Dario Varini