RILEGGERE DON MILANI
Io sto con la professoressa
·
26 febbraio
2017
www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-02-24/io-sto-la-professoressa-180752.shtml?...
1.
Rileggo, a cinquant’anni dalla
pubblicazione, la Lettera a una professoressa firmata dai
ragazzi di Barbiana che si raccolsero attorno a don Lorenzo Milani:
il priore moriva il 26 giugno di quello stesso 1967, poco più che quarantenne,
e veniva sùbito laicamente santificato da chi voleva farne, senza consultarlo,
un ispiratore delle imminenti rivolte, elevato grazie anche a quella Lettera agli
altari novecenteschi della contestazione. Ogni rivoluzione del resto ha il suo
cappellano, di solito cattolico: quella francese ebbe l’abbé Grégoire, prete e
persecutore.
Don Milani e i suoi contadini –
ossia poveri, come li si chiamava nel linguaggio della scuola
rurale di Barbiana, con termine che copriva indistintamente l’indigenza
materiale e quella intellettuale, confondendo l’una con l’altra – presentavano
in quel libriccino il programma di una scuola che si voleva inclusiva,
democratica, rivolta non tanto a selezionare quanto ad accompagnare verso un
livello minimo d’eguaglianza garantita, rimuovendo le differenze derivanti da
censo e condizione sociale. Nobili ideali, senza dubbio, destinati a
influenzare nei decenni successivi la scuola italiana, in cui molte delle
raccomandazioni di don Milani e dei suoi ragazzi trovarono realizzazione talora
puntuale, ben al di là – forse – delle loro stesse aspettative. Dalla
sostituzione delle vecchie e inutili materie letterarie (a partire
dall’inutilissima storia antica e dalla perfida poesia dei classici) conl’educazione
civica e con la storia d’oggi; dalla cacciata della grammatica intesa
come strumento d’oppressione all’abolizione di ogni forma di giudizio che
distingua tra più bravi e meno bravi; dalla soppressione de iure o de
facto della bocciatura – di ogni bocciatura –
all’adeguamento del sistema educativo al passo dei più lenti. Sono tutti
principî notissimi, e variamente giudicati e giudicabili, anche perché
condizionati dal modo in cui volta a volta li si è applicati (di solito male;
spesso peggio). Sarebbe fin troppo facile, e ingenerosamente sadico, osservare
che la scuola prefigurata dallaLettera a una professoressa è
giust’appunto quella che oggi tutti deprecano, avendola scoperta se possibile
peggiore di quella che l’aveva preceduta, perché capace di creare, nel suo
sgangherato egalitarismo, disparità e ingiustizie ancor più gravi di quelle
imputate all’odiosa vecchia scuola. Intanto, al santino di don Milani, che
considerava la professoressa privilegiata e persino strapagata, occhieggiano
oggi i rappresentanti del corpo docente peggio pagato e peggio considerato
dell’Occidente.
Ma che cos’era, poi, la vecchia scuola?Rileggendo la Lettera oggi, ciò che
più colpisce non è tanto quel che impressionava forse i primi lettori: quel che
allora pareva innovativo e progressivo sembra oggi logoro e semplicemente
travolto, o meglio bocciato, dal corso precipitoso – ma forse non
del tutto imprevedibile, né inevitabile – degli eventi. No, non è questo il
punto. Ciò che impressiona oggi è il risentimento che anima quelle pagine, e
che allora poteva essere inteso come riflesso dell’entusiasmo ribelle. Ma ormai
appare solo come la manifestazione di una pervicace abitudine italiana a fare
di odio e invidia la base di ogni ragionamento. Quella lanciata contro
l’anonima professoressa (anonima sì, ma ben delineata sociologicamente e
ritratta nella sua placida e detestata vita familiare, nel suo andare in
vacanza al mare, nel suo frequentare i ritrovi degli intellettuali e persino le
federazioni comuniste, in alternativa alla chiesa del paese) è una vera e
propria lapidazione. La colpa dell’insegnante, agli occhi dei ragazzi
di Barbiana, è di essere la ligia e ben retribuita esecutrice di un complotto
scientemente ordito dal Sistema. Un complotto che, come si ripete
tante volte nella lettera, mira a ingannare i poveri e
i contadini. Seingannare è ormai parola fin troppo
ricercata (grazie all’intervenuto bando della lingua letteraria), se i contadini non
esistono più e poverio impoveriti sono tutti,
l’accusa di ingannare i poveri si traduce semplicemente, nel
linguaggio oggi più usuale in Italia, in quella difregare la gente. In
quel verbo, che i ragazzi di Barbiana non usano perché nel 1967 non si era
ancora liberato dai ricordi squadristi che vi aleggiavano, ma che è davvero
difficile sostituire con qualsiasi sinonimo: in quel verbo, e nell’etica che vi
è sottesa, sta quanto di profondamente italiano – e purtroppo attuale – c’è
nella Lettera a una professoressa. È l’idea che ci sia uno Stato,
una scuola, una società, in una parola, un Sistema di cui si parla in terza
persona, il cui preciso fine è quello di fregare, appunto, un noi in
cui s’includono tutti coloro che, almeno pro tempore, lottano per
il disvelamento del grande inganno (e perciò sono esenti da qualsiasi colpa).
Nel frattempo, in attesa di passare da fregati a freganti,
giacché tertium non datur, prendono per il ciuffo e linciano la
professoressa – e, nella Lettera, i laureati in genere : memorabile
il passo in cui si lamenta il fatto che «le segreterie dei partiti a tutti i
livelli sono saldamente in mano ai laureati». A rileggerlo oggi c’è da ridere
fino alle lacrime.
La buona fede della professoressa è
un’aggravante, comunque difficile da accettare. Meglio credere che l’azzimata docente sia ben
informata del complotto, e lo avalli in coscienza, d’accordo col dottore e
colgiudice di cui è sposa fedele (così la Lettera).
Crederlo renderà più gustosa la sassaiola. La colpa, in fondo, è sempre della
professoressa, ultimo ingranaggio del «carro armato» costruito dai ricchi (alias
fascisti, aliasdottori,aliasPierino, nel linguaggio della Lettera)
per schiacciare i poveri, alias contadini, alias Gianni, eroe degli ultimi di
Barbiana, pronti a diventare i primi con rapidità ben poco
evangelica. Già, perché nell’arco di pochi anni ricchi e poveri saranno
indistinguibili, e finiranno per scambiarsi le parti in un balletto che avrebbe
fatto girar la testa al curato del Mugello. Potenti diverranno
gl’incensatori dell’altarino di don Milani, mentre gli odiati laureati,
lungi dall’accaparrarsi laticlavi e ministeri (distribuiti con altri
imperscrutabili criteri), faranno la coda per un posto da lavapiatti. Ma è così
che i primi saranno ultimi? Ah che rebus! A restare al suo posto
sarà solo la professoressa, composta donna d’ordine che ieri bocciava troppo e
oggi nemmeno può, anche volendo: ieri come oggi, sotto la gragnuola d’insulti
di chi la vuole responsabile di tutti gli analfabetismi, capro espiatorio di
ogni delitto. Mi fa una tenerezza. Sarà anche per questo che, in barba ai
lapidatori seriali, ai curati ribelli e ai loro chierichetti, ai cercatori di
complotti e ai pubblici predicatori, non so che farci: quasi per istinto, io sto
con la professoressa.
Sul "Domenicale" del Sole 24
Ore stroncatura di Tomasin che ha per vero bersaglio De Mauro. Misconoscendo la
lezione del prete di Barbiana
Per il centenario della pubblicazione di un libro che ha fatto storia, il “Corso di linguistica
generale” di Ferdinand de Saussure, Lorenzo Tomasin ha scritto una mezza stroncatura sul
“Domenicale” del Sole 24 Ore del 6 gennaio. Per i cinquant’anni delle “Lettera a una professoressa” di don Milani, lo stesso Tomasin ha scritto una stroncatura intera, sempre nel
“Domenicale”, il 26 febbraio scorso, col titolo: “Io sto con la professoressa”.
Il “Corso” di Saussure è l’opera che fonda la linguistica moderna. Tutto quanto
di buono si è ricercato e scritto in linguistica negli ultimi cent’anni ha i
suoi presupposti in Saussure, in particolare nella dicotomia sincronia:
diacronia, di cui Tomasin ha messo in dubbio la validità. Il grande mediatore
del pensiero di Saussure, è stato Tullio De Mauro che ha introdotto, tradotto e commentato il
“Corso”, opera problematica perché non scritta dall’autore ma confezionata
dagli allievi Charles Bally e Albert Sechehaye. Non solo in Italia, ma in molti
altri paesi il Corso di Saussure si legge oggi con l’apparato di De Mauro.
Non dubito che Tomasin tenga qualche freccia pronta nel carniere da tirare
al primo anniversario utile su De Mauro. Per adesso ha tirato un po’, ma solo
un po’ a lato, ha tirato su don Milani. Tullio De Mauro,
oltre che esegeta di Saussure, è stato il linguista del Novecento che più ha
fatto per far conoscere il pensiero di don Milani, lo ha condiviso, ne ha fatto
un’insegna, ha aperto con un grande, ispirato ritratto di don Milani il suo
libro “Le parole e i fatti”, 1977.
Lorenzo Tomasin, dice, ha riletto don Milani, “Lettera a una professoressa”.
L’ha letto con un occhio al presente e l’altro al 1968, l’anno della
contestazione generale.
“Lettera a una professoressa” è stato il libro più letto dai Sessantottini, più di Marx, più di Marcuse. Sarà per colpa sua, suppone Tomasin, che adesso
siamo ridotti come siamo ridotti, convinto com’è che il ’68 sia
all’origine di tutti i nostri mali, scolastici, soprattutto, e sociali. Il libro del priore di
Barbiana e dei suoi scolari ha un soggetto ristretto e specifico: tratta dellebocciature che
colpiscono i figli dei contadini alla scuole elementari, alle medie e dopo, e che facevano sì che, anche
dopo l’istituzione, nel 1962, della Scuola Media Unica, la scuola italiana si
potesse definire una scuola di classe, cioè non una scuola per tutti, ma la scuola della
borghesia. Il libro ha forma
di brevi lettere dei ragazzi alla professoressa che li aspetta alla scuola
media a Firenze, pronta a bocciarne una buona parte. Assistiti dal Priore,
armati di statistiche del Censis, i ragazzi scoprono i numeri e ci ragionano su
bravamente. Quello che non fanno loro lo farà poco più tardi non un ragazzo di
campagna, ma un primo della classe, sempre promosso (ma non ai concorsi
universitari), De Mauro.
Leggiamo questa parabola da “Lettera a una professoressa”: «Non bocciare. Al tornitore non si permette di consegnare
solo i pezzi che son riusciti. Altrimenti non farebbero nulla per farli
riuscire tutti. Voi [i professori] invece sapete di poter scartare i pezzi a
vostro piacimento. Perciò vi
contentate di controllare quello che riesce da sé per cause estranee alla
scuola». Don Milani è convinto che “Pierino del dottore”, figlio della borghesia, sia sempre promosso
non per quello che impara a scuola, dove, certo, è uno scolaro attento, ma per
quello che già sa da casa, come figlio di gente istruita. Gianni, figlio di
contadini (ce n’erano quasi
due miliardi nel pianeta, hanno calcolato i ragazzi sulle statistiche
mondiali), è bocciato perché “non ha la lingua”, premessa necessaria per ogni
apprendimento. La famosa professoressa si giustifica: lei ha promosso chi
sapeva, bocciato chi non sapeva. Dicono i ragazzi di Barbiana: avrebbe dovuto
fare come il tornitore coi pezzi che non volevano riuscire, lavorarci fino a
poter mostrare rifiniti bene anche quelli!
Don Milani parlava di “poveri” e di “ricchi”, di “città” e di “campagna”,
di dottori e di contadini. Un mondo diviso in due. Negli
ultimi cinquant’anni il mondo è cambiato, dicono alcuni, più che nei venti
secoli precedenti. Le classi sociali si sono rimescolate. Non possiamo più
vedere il mondo con gli occhi di don Milani e dei suoi ragazzi, ma non possiamo
nemmeno credere che le ingiustizie che li offendevano e li rivoltavano siano
scomparse dalla faccia della terra. La prassi educativa moderna prevede ormai
in tutti i paesi avanzati che la scuola non perpetui, ma cerchi di compensare la
distanza tra i punti di partenza tra i bambini della diverse classi sociali. Prevede che ci siano statistiche sulla
promozione sociale. Prevede pratiche speciali per i disabili.
Sull’apprendimento della lingua da parte dei figli dei migranti si discute sui
giornali, mentre di quella dei figli dei contadini fino a don Milani non ne
parlava nessuno. In questo mondo nuovo, i problemi suscitati da don Milani non sono
scomparsi. La sua voce
chiama ancora, non più nel deserto. Ma Tomasin preferisce la professoressa.
Lorenzo Renzi
Accademia della Crusca
Accademia della Crusca
Per l'appunto credo quello di Tomasin sia un articolo che contiene certo verità, ma parziali..occorre ben inquadrare :
RispondiElimina1 )quali erano i messaggi del'68, fra i quali Don Milani, per un innalzamento generale delle condizioni culturali in particolar modo con sensibilità per gl istudenti più svantaggiati;
2) qual è stata la pratica di questi messaggi;
3) la vergogna della riforma scolastica contemporanea , avviata da Luigi Berlinguer, fino all'attuale Valeri CGIL...un'obbedienza totale ai diktat che vengono da chi vuol liquidare l'istruzione pubblica,invaderla con paccottiglia pseudo-didattica per ledere i futuri giovani cerebri ancor più di quanto già nel tempo extrascolastico venga perpetrato dal dominio dell'informatica e telematica varie!