venerdì 31 marzo 2017

Primavera di bellezza

Com'è ormai tradizione, l'appuntamento annuale con Fenoglio, quest'anno ancor meglio qualitativo, con la conferenza di Dodo B. alla Fondazione Ferrero e le letture itineranti di Paolo T.,fra il centro di Alba e le colline...Primavera di bellezza!







giovedì 23 marzo 2017

Il diktat del Debito


Questo è un uomo che governa la cosidetta crisi finanziaria,la crisi del grande Capitale mai saturo, fatta pagare a lavoratori, pensionati, giovani.
Joen René Victor Anton Dijsselbloem (Eindhoven, 29 marzo 1966) è un politico olandese membro del Partito del Lavoro (PvdA).Dal 15 novembre 2012, Dijsselbloem è Ministro delle finanze e fa parte del secondo governo guidato dal premier Mark Rutte. Dal 21 gennaio 2013 è anche il presidente dell'Eurogruppo, il comitato dei ministrier delle finanze dell'eurozona, costituita dagli stati dell'Unione europea che hanno adottato l'euro come moneta ufficiale, succedendo nell'incarico a Jean-Claude Juncker.
Il 1º febbraio 2013 ha guidato la nazionalizzazione dell'ente finanziario olandese SNS Reaal, prevenendone la bancarotta Gli azionisti e creditori sono stati espropriati dei titoli senza compensazione e le altre banche nazionali hanno dovuto contribuire al salvataggio con cifre fino a un miliardo di euro.
Nel marzo 2013 Dijsselbloem è stato a capo dei negoziati per la gestione della crisi finanziaria di Cipro, nella condotta della quale si è attirato critiche per aver creato un precedente, forzando il prelievo dai depositi bancari come parte del salvataggio delle banche. A commento della sua scelta ha dichiarato "Sono abbastanza fiducioso che i mercati vedranno questo come un approccio ragionevole, molto contenuto e diretto, invece di un approccio più generale ... obbligherà tutte le istituzioni finanziarie, così come gli investitori, a pensare ai rischi che corrono, perché ora dovranno rendersi conto che si può anche far loro del male."
Ha dichiarato intorno al 24 marzo 2013 al Financial Times e alla Reuters che il salvataggio di Cipro è stato un modello per la risoluzione dei rischi di bancarotta per i sistemi bancari, ma il 26 marzo 2013 si è contraddetto dichiarando che Cipro non è stato un modello.
Dall'inizio del 2015, è impegnato nelle trattative per la gestione della crisi del debito greco e ha respinto nel mese di febbraio la richiesta del ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis di indire una conferenza tra tutti i paesi europei per la ristrutturazione del debito, rivendicando la gestione delle trattative al solo eurogruppo che presiede.
Nel marzo del 2017 ha una vasta eco, producendo molte proteste, un'intervista al Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ) in cui, riferendosi agli Stati dell'Europa Meridionale, dice: «Non puoi spendere tutti i soldi per alcol e donne e poi chiedere aiuto».
In seguito ha rifiutato di chiedere scusa per i suoi commenti,provocando una tempesta di reazioni.
Questo è un componente del Partito del Lavoro! E'chiaro che è già avvenuto , in forma più subdola e nascosta, la metamorfosi di questi Partiti come un secolo fa circa in Germania ecc.

martedì 21 marzo 2017

21marzo.Marcia regionale antimafia a Verbania

Verbania ha ospitato una manifestazione di gioventù, fisica o di animo,di coscienza...libertà, dalla Sicilia al Piemonte, libertà da tutte le mafie di qualsiasi forma, libertà dal debito...



sabato 18 marzo 2017

Fatti schiavi col DEBITO

Avvenire, 14 marzo 2017
Fatti schiavi col DEBITO
INTERVISTA
A colloquio con i l filosofo francese MARTIN.
E’ lo strumento col quale la finanza globale sottomette le nazioni e le singole persone nell’assenza sempre più sconcertante degli Stati


venerdì 3 marzo 2017

Don Milani o la professoressa? Due articoli a confronto

RILEGGERE DON MILANI
Io sto con la professoressa
·         –di Lorenzo Tomasin 

·         26 febbraio 2017

www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-02-24/io-sto-la-professoressa-180752.shtml?...
1.      
Rileggo, a cinquant’anni dalla pubblicazione, la Lettera a una professoressa firmata dai ragazzi di Barbiana che si raccolsero attorno a don Lorenzo Milani: il priore moriva il 26 giugno di quello stesso 1967, poco più che quarantenne, e veniva sùbito laicamente santificato da chi voleva farne, senza consultarlo, un ispiratore delle imminenti rivolte, elevato grazie anche a quella Lettera agli altari novecenteschi della contestazione. Ogni rivoluzione del resto ha il suo cappellano, di solito cattolico: quella francese ebbe l’abbé Grégoire, prete e persecutore.
Don Milani e i suoi contadini – ossia poveri, come li si chiamava nel linguaggio della scuola rurale di Barbiana, con termine che copriva indistintamente l’indigenza materiale e quella intellettuale, confondendo l’una con l’altra – presentavano in quel libriccino il programma di una scuola che si voleva inclusiva, democratica, rivolta non tanto a selezionare quanto ad accompagnare verso un livello minimo d’eguaglianza garantita, rimuovendo le differenze derivanti da censo e condizione sociale. Nobili ideali, senza dubbio, destinati a influenzare nei decenni successivi la scuola italiana, in cui molte delle raccomandazioni di don Milani e dei suoi ragazzi trovarono realizzazione talora puntuale, ben al di là – forse – delle loro stesse aspettative. Dalla sostituzione delle vecchie e inutili materie letterarie (a partire dall’inutilissima storia antica e dalla perfida poesia dei classici) conl’educazione civica e con la storia d’oggi; dalla cacciata della grammatica intesa come strumento d’oppressione all’abolizione di ogni forma di giudizio che distingua tra più bravi e meno bravi; dalla soppressione de iure o de facto della bocciatura – di ogni bocciatura – all’adeguamento del sistema educativo al passo dei più lenti. Sono tutti principî notissimi, e variamente giudicati e giudicabili, anche perché condizionati dal modo in cui volta a volta li si è applicati (di solito male; spesso peggio). Sarebbe fin troppo facile, e ingenerosamente sadico, osservare che la scuola prefigurata dallaLettera a una professoressa è giust’appunto quella che oggi tutti deprecano, avendola scoperta se possibile peggiore di quella che l’aveva preceduta, perché capace di creare, nel suo sgangherato egalitarismo, disparità e ingiustizie ancor più gravi di quelle imputate all’odiosa vecchia scuola. Intanto, al santino di don Milani, che considerava la professoressa privilegiata e persino strapagata, occhieggiano oggi i rappresentanti del corpo docente peggio pagato e peggio considerato dell’Occidente.
Ma che cos’era, poi, la vecchia scuola?Rileggendo la Lettera oggi, ciò che più colpisce non è tanto quel che impressionava forse i primi lettori: quel che allora pareva innovativo e progressivo sembra oggi logoro e semplicemente travolto, o meglio bocciato, dal corso precipitoso – ma forse non del tutto imprevedibile, né inevitabile – degli eventi. No, non è questo il punto. Ciò che impressiona oggi è il risentimento che anima quelle pagine, e che allora poteva essere inteso come riflesso dell’entusiasmo ribelle. Ma ormai appare solo come la manifestazione di una pervicace abitudine italiana a fare di odio e invidia la base di ogni ragionamento. Quella lanciata contro l’anonima professoressa (anonima sì, ma ben delineata sociologicamente e ritratta nella sua placida e detestata vita familiare, nel suo andare in vacanza al mare, nel suo frequentare i ritrovi degli intellettuali e persino le federazioni comuniste, in alternativa alla chiesa del paese) è una vera e propria lapidazione. La colpa dell’insegnante, agli occhi dei ragazzi di Barbiana, è di essere la ligia e ben retribuita esecutrice di un complotto scientemente ordito dal Sistema. Un complotto che, come si ripete tante volte nella lettera, mira a ingannare poveri e i contadini. Seingannare è ormai parola fin troppo ricercata (grazie all’intervenuto bando della lingua letteraria), se i contadini non esistono più e poverio impoveriti sono tutti, l’accusa di ingannare i poveri si traduce semplicemente, nel linguaggio oggi più usuale in Italia, in quella difregare la gente. In quel verbo, che i ragazzi di Barbiana non usano perché nel 1967 non si era ancora liberato dai ricordi squadristi che vi aleggiavano, ma che è davvero difficile sostituire con qualsiasi sinonimo: in quel verbo, e nell’etica che vi è sottesa, sta quanto di profondamente italiano – e purtroppo attuale – c’è nella Lettera a una professoressa. È l’idea che ci sia uno Stato, una scuola, una società, in una parola, un Sistema di cui si parla in terza persona, il cui preciso fine è quello di fregare, appunto, un noi in cui s’includono tutti coloro che, almeno pro tempore, lottano per il disvelamento del grande inganno (e perciò sono esenti da qualsiasi colpa). Nel frattempo, in attesa di passare da fregati a freganti, giacché tertium non datur, prendono per il ciuffo e linciano la professoressa – e, nella Lettera, i laureati in genere : memorabile il passo in cui si lamenta il fatto che «le segreterie dei partiti a tutti i livelli sono saldamente in mano ai laureati». A rileggerlo oggi c’è da ridere fino alle lacrime.
La buona fede della professoressa è un’aggravante, comunque difficile da accettare. Meglio credere che l’azzimata docente sia ben informata del complotto, e lo avalli in coscienza, d’accordo col dottore e colgiudice di cui è sposa fedele (così la Lettera). Crederlo renderà più gustosa la sassaiola. La colpa, in fondo, è sempre della professoressa, ultimo ingranaggio del «carro armato» costruito dai ricchi (alias fascisti, aliasdottori,aliasPierino, nel linguaggio della Lettera) per schiacciare i poveri, alias contadini, alias Gianni, eroe degli ultimi di Barbiana, pronti a diventare i primi con rapidità ben poco evangelica. Già, perché nell’arco di pochi anni ricchi e poveri saranno indistinguibili, e finiranno per scambiarsi le parti in un balletto che avrebbe fatto girar la testa al curato del Mugello. Potenti diverranno gl’incensatori dell’altarino di don Milani, mentre gli odiati laureati, lungi dall’accaparrarsi laticlavi e ministeri (distribuiti con altri imperscrutabili criteri), faranno la coda per un posto da lavapiatti. Ma è così che i primi saranno ultimi? Ah che rebus! A restare al suo posto sarà solo la professoressa, composta donna d’ordine che ieri bocciava troppo e oggi nemmeno può, anche volendo: ieri come oggi, sotto la gragnuola d’insulti di chi la vuole responsabile di tutti gli analfabetismi, capro espiatorio di ogni delitto. Mi fa una tenerezza. Sarà anche per questo che, in barba ai lapidatori seriali, ai curati ribelli e ai loro chierichetti, ai cercatori di complotti e ai pubblici predicatori, non so che farci: quasi per istinto, io sto con la professoressa.



Sul "Domenicale" del Sole 24 Ore stroncatura di Tomasin che ha per vero bersaglio De Mauro. Misconoscendo la lezione del prete di Barbiana

Per il centenario della pubblicazione di un libro che ha fatto storia, il “Corso di linguistica generale” di Ferdinand de Saussure, Lorenzo Tomasin ha scritto una mezza stroncatura sul “Domenicale” del Sole 24 Ore del 6 gennaio. Per i cinquant’anni delle “Lettera a una professoressa” di don Milani, lo stesso Tomasin ha scritto una stroncatura intera, sempre nel “Domenicale”, il 26 febbraio scorso, col titolo: “Io sto con la professoressa”. Il “Corso” di Saussure è l’opera che fonda la linguistica moderna. Tutto quanto di buono si è ricercato e scritto in linguistica negli ultimi cent’anni ha i suoi presupposti in Saussure, in particolare nella dicotomia sincronia: diacronia, di cui Tomasin ha messo in dubbio la validità. Il grande mediatore del pensiero di Saussure, è stato Tullio De Mauro che ha introdotto, tradotto e commentato il “Corso”, opera problematica perché non scritta dall’autore ma confezionata dagli allievi Charles Bally e Albert Sechehaye. Non solo in Italia, ma in molti altri paesi il Corso di Saussure si legge oggi con l’apparato di De Mauro.
Non dubito che Tomasin tenga qualche freccia pronta nel carniere da tirare al primo anniversario utile su De Mauro. Per adesso ha tirato un po’, ma solo un po’ a lato, ha tirato su don Milani. Tullio De Mauro, oltre che esegeta di Saussure, è stato il linguista del Novecento che più ha fatto per far conoscere il pensiero di don Milani, lo ha condiviso, ne ha fatto un’insegna, ha aperto con un grande, ispirato ritratto di don Milani il suo libro “Le parole e i fatti”, 1977. Lorenzo Tomasin, dice, ha riletto don Milani, “Lettera a una professoressa”. L’ha letto con un occhio al presente e l’altro al 1968, l’anno della contestazione generale.
“Lettera a una professoressa” è stato il libro più letto dai Sessantottini, più di Marx, più di Marcuse. Sarà per colpa sua, suppone Tomasin, che adesso siamo ridotti come siamo ridotti, convinto com’è che il ’68 sia all’origine di tutti i nostri mali, scolastici, soprattutto, e sociali. Il libro del priore di Barbiana e dei suoi scolari ha un soggetto ristretto e specifico: tratta dellebocciature che colpiscono i figli dei contadini alla scuole elementari, alle medie e dopo, e che facevano sì che, anche dopo l’istituzione, nel 1962, della Scuola Media Unica, la scuola italiana si potesse definire una scuola di classe, cioè non una scuola per tutti, ma la scuola della borghesia. Il libro ha forma di brevi lettere dei ragazzi alla professoressa che li aspetta alla scuola media a Firenze, pronta a bocciarne una buona parte. Assistiti dal Priore, armati di statistiche del Censis, i ragazzi scoprono i numeri e ci ragionano su bravamente. Quello che non fanno loro lo farà poco più tardi non un ragazzo di campagna, ma un primo della classe, sempre promosso (ma non ai concorsi universitari), De Mauro.
Leggiamo questa parabola da “Lettera a una professoressa”: «Non bocciare. Al tornitore non si permette di consegnare solo i pezzi che son riusciti. Altrimenti non farebbero nulla per farli riuscire tutti. Voi [i professori] invece sapete di poter scartare i pezzi a vostro piacimento. Perciò vi contentate di controllare quello che riesce da sé per cause estranee alla scuola». Don Milani è convinto che “Pierino del dottore”, figlio della borghesia, sia sempre promosso non per quello che impara a scuola, dove, certo, è uno scolaro attento, ma per quello che già sa da casa, come figlio di gente istruita. Gianni, figlio di contadini (ce n’erano quasi due miliardi nel pianeta, hanno calcolato i ragazzi sulle statistiche mondiali), è bocciato perché “non ha la lingua”, premessa necessaria per ogni apprendimento. La famosa professoressa si giustifica: lei ha promosso chi sapeva, bocciato chi non sapeva. Dicono i ragazzi di Barbiana: avrebbe dovuto fare come il tornitore coi pezzi che non volevano riuscire, lavorarci fino a poter mostrare rifiniti bene anche quelli!
Don Milani parlava di “poveri” e di “ricchi”, di “città” e di “campagna”, di dottori e di contadini. Un mondo diviso in due. Negli ultimi cinquant’anni il mondo è cambiato, dicono alcuni, più che nei venti secoli precedenti. Le classi sociali si sono rimescolate. Non possiamo più vedere il mondo con gli occhi di don Milani e dei suoi ragazzi, ma non possiamo nemmeno credere che le ingiustizie che li offendevano e li rivoltavano siano scomparse dalla faccia della terra. La prassi educativa moderna prevede ormai in tutti i paesi avanzati che la scuola non perpetui, ma cerchi di compensare la distanza tra i punti di partenza tra i bambini della diverse classi sociali. Prevede che ci siano statistiche sulla promozione sociale. Prevede pratiche speciali per i disabili. Sull’apprendimento della lingua da parte dei figli dei migranti si discute sui giornali, mentre di quella dei figli dei contadini fino a don Milani non ne parlava nessuno. In questo mondo nuovo, i problemi suscitati da don Milani non sono scomparsi. La sua voce chiama ancora, non più nel deserto. Ma Tomasin preferisce la professoressa.
Lorenzo Renzi
Accademia della Crusca