venerdì 30 ottobre 2015

Le vocali di Arthur Rimbaud

Il celeberrimo sonetto “Vocali” appare come un lieve, aereo tentativo di esplorare
le possibilità di quella futura, nuova lingua capace di riassumere tutto: «... profumi,
suoni, colori ...». È vero che la probabile origine dell’ispirazione del primo verso:
«A nero, E bianco, I rosso, U verde, O blù» deve stare in quegli abecedari colorati che
si usavano all’epoca per insegnare a leggere, ove le lettere delle singole vocali
avevano un determinato colore ed erano poi associate a quattro disegni - A (nero)
= ape, astro, arcobaleno etc. -. Conversando con l’amico poeta Delahaye a proposito
del sonetto, Rimbaud gli confessò in tutta semplicità: «Mi è sembrato di vedere, a
volte mi è parso di vederle così, le vocali e dunque lo dico, lo racconto, ...» In effetti,
si tratta di una calibrata, giocosa armonia di suoni, colori, immagini, ma del
retrostante più profondo, dell’indicibile: «Dirò un giorno delle vostre nascite
latenti.»
Lo slancio, il viaggio, l’attraversamento dello spazio altro da, sono racchiusi nella
terzina finale :

O, Tromba suprema di stridori fondi,
Silenzi attraversati dagli angoli e dai mondi,
O l’Omega, raggio violetto di quei Suoi Occhi!

Le scarne spiegazioni date dal poeta al Delahaye si possono completare con le
parole di Mallarmé: «Poesia è l’espressione attraverso il linguaggio umano,
ricondotto al suo ritmo essenziale, del senso misterioso degli aspetti dell’esistenza,
il quale dona così autenticità al nostro soggiorno terreno e ne costituisce il solo
compito spirituale.»

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All'epoca relativamente lontana del nostro sodalizio, Arthur Rimbaud era un ragazzo tra i sedici e i diciassette anni, già in possesso di tutto il bagaglio poetico che il vero pubblico dovrebbe ormai conoscere(...)
Era alto, ben fatto, quasi atletico, con un viso perfettamente ovale da angelo in esilio, i capelli castani sempre in disordine e gli occhi di un inquietante azzurro pallido. Ardennese, oltre a un piacevole accento provinciale, troppo presto perduto, possedeva il dono di una pronta assimilazione tipico di quel luogo, - il che potrebbe spiegare anche il rapido inaridirsi della sua vena poetica sotto l'insipido sole di Parigi, per parlare come i nostri padri, il cui linguaggio semplice e diretto, in fin dei conti, non era sbagliato!". 

(P. Verlaine, I poeti maledetti, La Spiga, Milano 1995).
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‘Genio’ è l’addio di Rimbaud, l’ultimo suo volo al termine delle “Illuminazioni”: la
terzina finale del primo sonetto di Mallarmé - dove appunto si allude con tanta
intensità al ‘genio’ - ci appare come l’istantanea imperitura di quel volo: « Lo spazio
uguale a sé che si neghi o si è aumentato / Rotola in questa noia di vili fuochi a
testimone / Che il genio d’un astro in festa s’era illuminato. »

Il deserto, l’esilio di Haarar, fu per Rimbaud l’esilio volontario dal deserto di questa
vita, dal ghiacciato lago dei voli che non si sono mai innalzati. Fra i suoi scritti
contabili, Rimbaud conservava la lettera del direttore della Rivista “La France
Moderne”, ricevuta un anno prima della sua morte: la Rivista era di Marsiglia e lo si
invitava a collaborare perché i suoi versi erano noti al punto da farlo considerare
‘chef de file de l’Ecole décadente et symboliste’. Rimbaud dunque era a conoscenza
che la sua poesia si stava affermando, ma aveva cercato dell’altro, ben altro, dalla
fama e gloria letterarie. E nei lunghi mesi trascorsi all’ospedale di Marsiglia, mai
chiese alla sorella di interessarsi di quella Rivista, a che punto fosse la sua
incipiente notorietà. ‘Quello spazio uguale a sé’ non s’è accresciuto, anzi, va
sensibilmente negandosi: questo nostro spazio, che in una noia di vili fuochi
ancora va rotolando, e che pure è stato testimone di quel ragazzo che ‘d’un astro in
festa s’era illuminato’.

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