PAYSH KHABUR — Dire che hanno bisogno di tutto può sembrare una frase
banale e forse anche esagerata per descrivere gruppi di profughi in
fuga. In genere, anche i più disperati sparsi negli angoli oscuri della
Terra posseggono qualche soldo, un gioiello, una collana di valore
nascosti nelle scarpe, nella culla del figlio; oppure possono ricorrere a
un parente, a un amico residente da qualche parte che a un certo punto
potrà dare una mano. Ma è senz’altro pertinente nel caso degli yazidi.
«I cristiani iracheni almeno hanno la solidarietà delle Chiese e la
comunità internazionale che li aiuta. Noi siamo soli, non abbiamo
nessuno», dicono stremati. Un fiume di naufraghi perseguitati dalle
brigate del cosiddetto «Califfato», con tante storie individuali di
orrore e paura.
Arrivano al ponte sul Tigri che segna il confine tra le regioni curde
siriane e quelle irachene presso il villaggio di Faysh Khabur
letteralmente senza niente. Non hanno nulla, né soldi, né vestiti di
ricambio, né cibo, né medicinali. In molti casi persino le ciabatte e le
magliette che indossano sono state donate dai guerriglieri del Ypk, i
curdi siriani, che dal momento della loro discesa dalla montagna di
Sinjar verso la Siria li hanno scortati per 250 chilometri sino al punto
di rientro in Iraq. Da qui un servizio di minibus gratuito (non
saprebbero come pagare) li porta ai campi di tende in allestimento
dell’Onu e nei centri raccolta urbani sparsi tra le cittadine di Dahuk e
Zakho. Hanno abbandonato i vecchi e gli infermi che non potevano
camminare per una settimana a oltre 1.200 metri di quota senza alcun
rifugio. Resti di umanità braccata, ossessionati dal fantasma dello
sterminio. «E’ una replica contemporanea del genocidio in Bosnia, della
pulizia etnica anni Novanta, riadattata in chiave mediorientale»,
denunciano all’ufficio Unicef di Dohuk. Le parole dei profughi sembrano
confermare.
«La notte tra il tre e quattro agosto ho ricevuto due telefonate dai
miei parenti residenti nella cittadina di Sinjar, una trentina di
chilometri da Tel Azir, il mio villaggio. Mi hanno detto che dovevamo
scappare subito. I pazzi criminali del Califfato stavano sequestrando le
nostre donne e fucilando gli uomini in massa. Dovevamo salire sulla
montagna dove loro non arrivano con i gipponi. In meno di due ore
eravamo in marcia. Davanti a noi le brigate dei peshmerga (i militari
dell’enclave curda irachena, ndr) erano già in rotta. Da lontano abbiamo
sentito nel buio che gli islamici usavano i megafoni sui minareti delle
moschee per imporre il loro ultimatum: se non ci fossimo convertiti, ci
avrebbero ucciso», ricorda Kheri Dakhil, studente 24enne che è riuscito
a condurre oltre venti famigliari verso la salvezza. Sua sorella
minore, elenca i nomi delle amiche che non ce l’hanno fatta: «Sono state
catturate subito. Gli islamici cercano le ragazze più giovani. Le
separano dal marito e dai figli, se sono sposate. Così hanno preso
Ghalia Barakat di 33 anni; Hadu Dakhilluwarde di 28 anni; Khalifa Sharaf
di 32 e mia cugina 32enne Zere».
Mirza Kholo, 28 anni, è un pastore del villaggio di Khanassor. Appare
consumato dalla fatica, con rughe profonde a segnare la fronte, le
labbra rotte dalla disidratazione, i pantaloni della tuta infangati, la
maglia bucata. «Non abbiamo bisogno di aiuto, non c’è più nulla da
perdere», mormora rassegnato. Ha perso 250 tra pecore e capre, oltre la
casa e i campi coltivati a grano. «Sulle montagne di Sinjar c’erano
alcuni pozzi per l’acqua. Ma non bastavano alle migliaia di sfollati che
si erano accampati tutto attorno. Era importante avere le proprie
riserve e tenerle in disparte», dice. Sino all’ultimo si era tenuto
l’asinello per il trasporto di tre giare d’acqua che hanno tenuto in
vita lui e trenta famigliari. Ma poi ha dovuto abbandonare anche quello.
A sua volta racconta degli omicidi di massa. Gli islamici riprendono le
esecuzioni con i telefonini e le diffondono subito in Rete per
moltiplicare l’effetto terrore. Vicino lui la nipote dodicenne menziona
la zia e le cugine prese dagli islamici: Gole Halaravo, 70 anni; Hamsha
32 anni; Linda 28. Hussein Hissa, 28enne impiegato in una compagnia
edile turca residente nel villaggio Gherezar, indica una decina di
bambini feriti, alcuni gravemente con i volti gonfi e gli arti rotti,
che si lamentano mostrando i bendaggi di fortuna. «Le loro famiglie
scappavano su trattori e minibus, quando i guerriglieri hanno sparato
con armi pesanti. I mezzi si sono rovesciati, ci sono stati almeno
quattro morti. E per sei giorni i bambini si sono accodati alla nostra
fuga senza alcuna assistenza medica. Solo pochi minuti fa sono stati
bendati», dice. Un anziano ricorda di avere visto la fucilazione a
sangue freddo di otto uomini davanti alle loro abitazioni, quindi il
«rapimento di 14 ragazze di età compresa tra i 13 e 24 anni». All’ombra
di folti cespugli verdi stanno accoccolate tre ragazze, due sono
sorelle, Sahar Hassan di 15 anni e Wanza di 17, assieme all’amica Ghula
Aio di 18. Hanno visto il rapimento di due sorelle loro amiche nella
casa vicina nel villaggio di Sipaieshekh: la ventenne Halima Haji e la
17enne Adiba di 20. «Abbiamo sentito che gli uomini armati urlavano al
padre che doveva convertirsi. Ma lui non voleva. Abbiamo visto che
allora prendevano le nostre amiche. Le obbligavano a stare in un gruppo
di altre donne prigioniere. Noi siamo scappate con i nostri famigliari.
Si sono sentiti spari in lontananza. Poi siamo rimaste sette giorni a
camminare per le montagne. Ci dicevano che gli americani gettavano dal
cielo acqua e cibo. Ma c’erano troppi profughi. Quando arrivavamo noi
tutto era stato già preso».
Lorenzo Cremonesi
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Devo ammettere che non conosco approfonditamente l’argomento, quindi è stata una buona lettura. Interessante sono anche le testimonianze dirette riportate. Come queste storie ce ne sono ancora molte analoghe; senza soldi, senza cibo e acqua, senza medicinali e risorse mediche, senza beni… Le età delle vittime sono variabili: da bambini piccoli, a ragazzine, a donne e adulti. Assurdo è pensare che le mogli vengono separate dai mariti e che di punto in bianco alcune persone debbano abbandonare le proprie dimore e lasciare tutto. Ancora una volta una testimonianza della nostra fortuna. Le auguro una buona conclusione di vacanze.
RispondiEliminaLeggendo questo articolo mi sono resa conto di come siamo fortunati rispetto a molto altre persone povere ed affamate; molto spesso ci lamentiamo per cose inutili e superflue mentre alcuni bambini stanno morendo di fame.
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