mercoledì 4 giugno 2014

Vale più la virtù o la fortuna?

Vale più la virtù o la fortuna?



 Cesare Borgia                                                                       Niccolò Machiavelli
                                     
È quantomeno peculiare che, al cuore di un trattato che si pone l'obiettivo di una costruzione razionale della virtù, o meglio delle virtù della politica, Machiavelli abbia collocato la vicenda di Cesare Borgia, il Valentino, figlio esemplare della fortuna. Come è noto, il rapporto tra virtù e fortuna nel Principe è uno nei nodi teorici più delicati e filosoficamente stimolanti dell'intera opera. Nella convinzione che il dialogo tra pensatori di secoli diversi possa essere enormemente fruttifero, proprio come lo stesso Machiavelli auspicava nella famosa lettera del 10 dicembre 1513 a Vettori, proveremo a far dialogare Machiavelli con un importante filosofo novecentesco, Bernard Williams, autore tra gli altri della raccolta di saggi Sorte morale.
La "sorte morale" (Moral Luck) di cui parla Williams è un'idea profonda e originale, che ha a che vedere con un'altra felice espressione filosofica: la "fragilità del bene", cui Martha Nussbaum ha dedicato un altro famoso libro.
Molte delle ambiguità di Machiavelli nell'affrontare la tensione fondamentale tra virtù e fortuna si stemperano e si chiariscono proprio se prendiamo le mosse dal ragionamento di Williams. Il grande filosofo morale propone un esempio ricco di sfumature, una sorta di «esperimento mentale»: parla di un pittore di nome Gauguin – un Gauguin, certo, più immaginario che reale – che da giovane scommette di essere un grande artista. Ma per verificarlo è costretto a compiere una scelta assai riprovevole: deve abbandonare la famiglia. Ha fatto bene o ha fatto male? Dipende dal successo che avrà come artista. Se non avrà successo, il biasimo del prossimo sarà totale. Se invece avrà successo quella scelta moralmente dubbia apparirà del tutto giustificata.
Nel Principe, l'impostazione teorica di fondo è molto simile. Anche la virtù di Machiavelli non è facile da separare dalla questione del successo dell'azione, anzi ne è intrisa. Si potrebbe addirittura dire che le virtù del principe, che riguardano la conquista, la creazione e il mantenimento degli Stati, e che ben poco hanno a che vedere con le virtù morali dell'uomo comune, riguardano tutte il fine cui esse tendono: la gestione e il mantenimento del potere e la capacità di far durare la conquista.
Ma senza che le virtù stesse risultino in ultima analisi depotenziate dall'azione apparentemente ingovernabile della "fortuna": «Affinché il nostro libero arbitrio non sia completamente annullato, penso possa essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle nostre azioni, ma penso anche che essa ne lasci governare l'altra metà, o quasi, a noi». Cioè alle nostre virtù.
Ma che tipo di virtù sono queste di cui si parla? Non sono né virtù civiche – queste semmai riguardano le repubbliche e non i principati – né virtù morali in senso stretto. Sono piuttosto, in massima parte, virtù epistemiche: hanno a che vedere con la reale capacità di sapere, e di conseguenza prevedere, di che pasta sono fatti gli uomini e come si comportano nelle mutevoli e imprevedibili vicende che li vedono coinvolti. «E quindi bisogna che egli abbia un animo disposto a voltarsi dalla parte che i venti della fortuna e il variare delle cose gli comandano» afferma Machiavelli nel cap. XVIII poco dopo aver proposto ai lettori la notissima similitudine della volpe e del leone, dove per "animo" dobbiamo senz'altro intendere in questo caso la mente, l'intelletto del principe, insieme allo spettro di quelle doti di carattere che rientrano nell'attitudine personale del soggetto. Per dirla con un altro termine chiave, anch'esso presente nel testo, si tratta di contrastare i rovesci della fortuna con l'utilizzo saggio del buon senso, della "prudenza", dove «la prudenza consiste in sapere conoscere le qualità delli inconvenienti e pigliare el men tristo per buono».
Per questo la tensione tra virtù e fortuna trova nel personaggio di Cesare Borgia il suo apice. Borgia, «chiamato dal volgo duca Valentino», è "figlio della fortuna" perché «acquisì lo stato con la fortuna del padre e insieme con quella lo perdette» (Cap. VII). Ma dopo aver ripercorso e valutato in lungo e in largo la catena delle azioni compiute dal Valentino nell'esercizio del potere… ecco annidato il sorprendente scacco della ragione (politica) tanto perseguita da Machiavelli e della connessa virtù: «Avendo dunque riassunte tutte le azioni del duca, nulla saprei rimproverargli: anzi mi sembra di poterlo proporre – come io ho fatto – a modello da imitare per tutti coloro che sono ascesi al comando per fortuna e con le armi altrui; giacché egli, avendo l'animo grande e alto l'intento, non avrebbe potuto comportarsi meglio, e ai suoi disegni si opposero solo la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia».
Eppure la stella del virtuoso Borgia declinò, eccome. Di qui tutta l'ambiguità di Machiavelli: in bilico tra fiducia profonda nella virtù politica, la capacità di analizzare e prevedere gli eventi, anche per preservare il libero arbitrio degli uomini e, dall'altra parte, la fortuna che a volte è fortuito aiuto o, più potentemente e forse anche più spesso, vero tranello per le ambizioni umane. Per la ragione ordinatrice (politica) dell'uomo. Insomma per il principe.
Torniamo dunque all'esperimento mentale di Williams. La scelta di Gauguin è amorale? Per Williams non è questo il modo giusto per inquadrarla. E il Principe è amorale? Anche questo è un modo sbagliato di porre una domanda. La "sorte costitutiva" di cui parla Williams, nel quadro concettuale del Principe è più vicina alla fortuna, al carattere o alla virtù? In realtà partecipa di tutti gli elementi, probabilmente perché tocca il nervo teorico scoperto, la zona grigia, di Machiavelli. Virtù e fortuna sono fortemente intrecciate tra loro, così come lo sono i mezzi e i fini. Per questo è sbagliato dire che il fine giustifica i mezzi, espressione che infatti Machiavelli non ha mai usato. È tutto più sofisticato e complesso: il principe ragiona continuamente su mezzi e fini e se è un buon principe lo fa avendo in mente le virtù proprie della politica.

4 commenti:

  1. Il Principe è un trattato di dottrina politica scritto da Niccolò Machiavelli nel 1513, nel quale espone le caratteristiche dei principati e dei metodi per mantenerli e conquistarli. Il termine virtù in Machiavelli cambia significato: la virtù è l'insieme di competenze che servono al principe per relazionarsi con la fortuna, cioè gli eventi esterni. La virtù è quindi un insieme di energia e intelligenza, il principe deve essere intelligente ma anche efficace ed energico.
    La virtù del singolo e la fortuna si implicano a vicenda: le doti del politico restano puramente potenziali se egli non trova l'occasione adatta per affermarle, e viceversa l'occasione resta pura potenzialità se un politico virtuoso non sa approfittarne. L'occasione, tuttavia, è intesa da Machiavelli in modo peculiare: essa è quella parte della fortuna che si può prevedere e calcolare grazie alla virtù. Mentre un esempio di fortuna può essere che due Stati siano alleati (è un dato di fatto, un evento), un esempio di occasione è il fatto che bisogna allearsi con qualche altro Stato o comunque organizzarsi per essere pronti ad un loro eventuale attacco. Machiavelli nei capitoli VI e XXVI scrive che occorreva che gli ebrei fossero schiavi in Egitto, gli Ateniesi dispersi nell'Attica, i Persiani sottomessi ai Medi perché potesse rifulgere la "virtù" dei grandi condottieri di popoli come Mosè, Teseo e Ciro.

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  2. Niccolò Machiavelli nasce a Firenze il 3 maggio 1469, in una realtà storico-politica complessa. Infatti gli stati italiani regionali erano in crisi dovuto alla frammentazione politica e all’uso di truppe mercenarie, mentre stava avvenendo, in un contesto più ampio, il rafforzamento degli stati europei dovuto all’unità politica e alla centralizzazione dei poteri. Quindi gli stati italiani rischiano di subire l’egemonia delle potenze straniere. Niccolò sostiene la necessità di un principe che possegga la virtù politica, non necessariamente coincidente con quella morale, per costruire in Italia uno stato forte, ben ordinato, con l’istituzione di religione, leggi, milizie le quali disciplinano il comportamento dei cittadini, garantendo il perseguimento del bene comune. Questa concezione la si ritrova nel suo scritto Il Principe, il cui vero titolo è De Principatibus, nel quale si trovano i punti fondamentali per il sostenimento dei principati (la prudenza, la necessità del controllo delle armi, l’ispirazione ai grandi dell’antica Roma, la capacità di essere leone, volpe e centauro (leone forza - volpe astuzia - centauro come capacità di usare la forza come gli animali e la ragione come l'uomo)…). Le prerogative fondamentali per essere principe sono fortuna e virtù. Quest’ultima è concepita in modo diverso rispetto al significato attuale. In Machiavelli indica l’insieme di capacità, competenze esterne caratteristiche del singolo(non intervengono le virtù morali), importanti per approcciarsi alla fortuna. Esempio a cui ricorre il poeta è quello di Cesare Borgia, figlio del pontefice Alessandro VI il quale si era trovato meno della fortuna e questo portò alla sua caduta. Infatti in contemporanea con il regnare del padre Cesare aveva ottenuto possedimenti della zona centro-orientale del Paese, ma a seguito della morte del papa e della malattia in cui egli stesso si imbatte perde ogni potere. Nel mio umile pensiero invece penso che la fortuna giochi si un ruolo in alcune circostanze, ma sono le capacità del singolo ad avere importanza.

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    1. Vi ringrazio per non aver già abbandonato il blog, e questo articolo, che prometto sarà impiegato ancora a settembre! fa anche piacere che per qualcuno la scuola, il nostro insegnamento, non sia qualcosa da fuggire non appena suonata l'ultima campanella dell'anno..domani raccoglierete con i voti finali il frutto numerico del vostro lavoro, che ha sorretto classe e insegnanti anche quest'anno..poichè non ci vedremo martedì prossimo, godetevi l'estate, sicuro che a settembre sarete in ottima forma!

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  3. Mi pare abbiano già scritto tutto in modo più che approfondito le mie due compagne sopra quindi mi limito a leggere i loro commenti e, chiaramente, l'articolo! Concordo con la frase che dice che è sbagliato dire che il fine giustifica i mezzi: io personalmente anche se volessi raggiungere un fine ben preciso non mi metterei mai a usare dei mezzi sbagliati ma piuttosto cercherei di fare come ragiona il "principe" :

    " il principe ragiona continuamente su mezzi e fini e se è un buon principe lo fa avendo in mente le virtù proprie della politica." Saluti, Elisa.

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