martedì 24 giugno 2014

Jan Hus nel 1415 e seicento anni dopo


Jan Hus nel 1415 e seicento anni dopo 
A cura del museo hussita di Tàbor
Con esposizione di libri antichi delle biblioteche
della Società di Studi Valdesi e del Centro Culturale Valdese
A seicento anni dalla sua condanna a morte, le discussioni animate avute per secoli
sulla figura del riformatore boemo Jan Hus, nella Repubblica Ceca
e in Europa in generale hanno avuto un arresto;
ma lo studio della storia di questo personaggio, della sua opera e della sua morte,
rimangono imprescindibili per l'unità multiculturale europea odierna.


Orari
:
Il 22 giugno dalle 11:30 alle 19:30
Successivamente, in giugno:
giovedì-sabato-domenica 15-18 o a richiesta durante gli orari di ufficio;
luglio e agosto 16-19 tutti i giorni
Info: 0121.932179
www.fondazionevaldese.org
Torre Pellice (To)
tel. 0121/932179 fax 932566
Via Beckwith 3

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Nell’anno 1415 durante il Concilio della Chiesa d’Occidente tenutosi a Costanza (1414-1418) Jan Hus, nativo della Boemia in Europa centrale, fu condannato a morte. Il tentativo di questo Concilio di rinnovare l’unità della teologia medievale estirpando le varianti radicali del pensiero cristiano di quel periodo incarnate nella persona di Jan Hus finì per traumatizzare la Chiesa in Europa centrale ponendo fine alla sua influenza in Boemia, la quale da allora si erse a difesa del nome di Jan Hus lottando per la vita o per la morte. Jan Hus, all’inizio del suo operato un ligio prelato cattolico e pedagogo universitario, incontrò sulla sua strada di lotta vana per una Chiesa riformata il pensiero del teologo inglese John Wyclif (1330?-1384). In contrasto col principio in base al quale la Chiesa doveva essere garante universale della salvezza, Hus promosse la fede intima del cristiano, disponibile a sottomettersi all’autorità temporale della Chiesa solo qualora lo ritenesse giusto. Fu arso sul rogo a Costanza il 6 luglio 1415.
Nell’Europa all’inizio del XV secolo la decisione dell’organo superiore della Chiesa di quel tempo fu accettata senza proteste, se non addirittura in alcuni casi con una certa soddisfazione. Tuttavia una parte significativa degli abitanti della Boemia, compresi gli strati più alti della popolazione, considerava Jan Hus già quando era in vita come un maestro e una guida spirituale. Il verdetto di Costanza li indusse a opporsi non solo al re Sigismondo di Lussemburgo e a numerosi altri compatrioti, ma anche a tutta l’Europa che negli anni 1420-1434 tentò di costringerli alla obbedienza attraverso cinque spedizioni crociate. I Boemi fedeli al ricordo di Jan Hus cominciarono a essere chiamati “hussiti” e sotto la guida di Praga capitale e di Tàbor, fondata nel 1420 in Boemia meridionale come roccaforte della nuova fede e rifugio di salvezza, non si piegarono in queste guerre sanguinose.
Alla fine la Chiesa europea dimostrò una volontà di compromesso nel Concilio di Basilea (1431-1449) riconoscendo agli hussiti boemi il diritto a una chiesa autonoma. In Boemia quindi per la prima volta nell’Europa medievale si poté formare un modello di tolleranza religiosa verso tutte le confessioni cristiane, che venne distrutto dalla Guerra dei Trent’anni (1618-1648), durante la quale la monarchia asburgica impose alla Boemia il cattolicesimo come unica fede permessa. In questo modo per due secoli Jan Hus divenne nella sua patria lo spauracchio della storia religiosa, culturale e politica del Regno di Boemia. In quel periodo fu il movimento di riforma europeo a conservarne l’eredità. Il liberalismo e la rinnovata tolleranza religiosa del XIX secolo nelle Terre ceche permisero la riabilitazione di Jan Hus , il quale fino al 1900 assunse di nuovo il ruolo di personalità più significativa nella società ceca che andava man mano prendendo coscienza di sé. La Repubblica cecoslovacca, sorta nel 1918 in seguito alla caduta dell’ Austria-Ungheria, indicava come proprio ideale etico. Questo atteggiamento verso Hus e gli hussiti è rimasto vivo fino ad oggi negli ambienti cechi senza riguardo alle alternanze di regimi politici e ai cambiamenti culturali avvenuti durante il XX secolo.
Nel XXI secolo la secolare e appassionata polemica senza fine sulla sua eredità in Boemia e in Europa sta progressivamente affievolendosi. La personalità di Hus, la sua opera e la sua morte stanno diventando un appello alla pace e alla ricerca dell’unità della cultura europea nella sua varietà. Anche questa mostra itinerante vuole fornire il suo contributo. E’ stata preparata per il pubblico ceco e Europeo dal Museo hussita di Tàbor in quanto principale centro impegnato nella conservazione della tradizione hussita e riformista in Repubblica ceca. Ha collaborato con la Società del Museo Hus di Praga, che gestisce la Casa di Hus di Costanza. Inoltre raccoglie gli storici cechi che si occupano della vita, dell’opera e del significato storico di Jan Hus.

mercoledì 4 giugno 2014

Vale più la virtù o la fortuna?

Vale più la virtù o la fortuna?



 Cesare Borgia                                                                       Niccolò Machiavelli
                                     
È quantomeno peculiare che, al cuore di un trattato che si pone l'obiettivo di una costruzione razionale della virtù, o meglio delle virtù della politica, Machiavelli abbia collocato la vicenda di Cesare Borgia, il Valentino, figlio esemplare della fortuna. Come è noto, il rapporto tra virtù e fortuna nel Principe è uno nei nodi teorici più delicati e filosoficamente stimolanti dell'intera opera. Nella convinzione che il dialogo tra pensatori di secoli diversi possa essere enormemente fruttifero, proprio come lo stesso Machiavelli auspicava nella famosa lettera del 10 dicembre 1513 a Vettori, proveremo a far dialogare Machiavelli con un importante filosofo novecentesco, Bernard Williams, autore tra gli altri della raccolta di saggi Sorte morale.
La "sorte morale" (Moral Luck) di cui parla Williams è un'idea profonda e originale, che ha a che vedere con un'altra felice espressione filosofica: la "fragilità del bene", cui Martha Nussbaum ha dedicato un altro famoso libro.
Molte delle ambiguità di Machiavelli nell'affrontare la tensione fondamentale tra virtù e fortuna si stemperano e si chiariscono proprio se prendiamo le mosse dal ragionamento di Williams. Il grande filosofo morale propone un esempio ricco di sfumature, una sorta di «esperimento mentale»: parla di un pittore di nome Gauguin – un Gauguin, certo, più immaginario che reale – che da giovane scommette di essere un grande artista. Ma per verificarlo è costretto a compiere una scelta assai riprovevole: deve abbandonare la famiglia. Ha fatto bene o ha fatto male? Dipende dal successo che avrà come artista. Se non avrà successo, il biasimo del prossimo sarà totale. Se invece avrà successo quella scelta moralmente dubbia apparirà del tutto giustificata.
Nel Principe, l'impostazione teorica di fondo è molto simile. Anche la virtù di Machiavelli non è facile da separare dalla questione del successo dell'azione, anzi ne è intrisa. Si potrebbe addirittura dire che le virtù del principe, che riguardano la conquista, la creazione e il mantenimento degli Stati, e che ben poco hanno a che vedere con le virtù morali dell'uomo comune, riguardano tutte il fine cui esse tendono: la gestione e il mantenimento del potere e la capacità di far durare la conquista.
Ma senza che le virtù stesse risultino in ultima analisi depotenziate dall'azione apparentemente ingovernabile della "fortuna": «Affinché il nostro libero arbitrio non sia completamente annullato, penso possa essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle nostre azioni, ma penso anche che essa ne lasci governare l'altra metà, o quasi, a noi». Cioè alle nostre virtù.
Ma che tipo di virtù sono queste di cui si parla? Non sono né virtù civiche – queste semmai riguardano le repubbliche e non i principati – né virtù morali in senso stretto. Sono piuttosto, in massima parte, virtù epistemiche: hanno a che vedere con la reale capacità di sapere, e di conseguenza prevedere, di che pasta sono fatti gli uomini e come si comportano nelle mutevoli e imprevedibili vicende che li vedono coinvolti. «E quindi bisogna che egli abbia un animo disposto a voltarsi dalla parte che i venti della fortuna e il variare delle cose gli comandano» afferma Machiavelli nel cap. XVIII poco dopo aver proposto ai lettori la notissima similitudine della volpe e del leone, dove per "animo" dobbiamo senz'altro intendere in questo caso la mente, l'intelletto del principe, insieme allo spettro di quelle doti di carattere che rientrano nell'attitudine personale del soggetto. Per dirla con un altro termine chiave, anch'esso presente nel testo, si tratta di contrastare i rovesci della fortuna con l'utilizzo saggio del buon senso, della "prudenza", dove «la prudenza consiste in sapere conoscere le qualità delli inconvenienti e pigliare el men tristo per buono».
Per questo la tensione tra virtù e fortuna trova nel personaggio di Cesare Borgia il suo apice. Borgia, «chiamato dal volgo duca Valentino», è "figlio della fortuna" perché «acquisì lo stato con la fortuna del padre e insieme con quella lo perdette» (Cap. VII). Ma dopo aver ripercorso e valutato in lungo e in largo la catena delle azioni compiute dal Valentino nell'esercizio del potere… ecco annidato il sorprendente scacco della ragione (politica) tanto perseguita da Machiavelli e della connessa virtù: «Avendo dunque riassunte tutte le azioni del duca, nulla saprei rimproverargli: anzi mi sembra di poterlo proporre – come io ho fatto – a modello da imitare per tutti coloro che sono ascesi al comando per fortuna e con le armi altrui; giacché egli, avendo l'animo grande e alto l'intento, non avrebbe potuto comportarsi meglio, e ai suoi disegni si opposero solo la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia».
Eppure la stella del virtuoso Borgia declinò, eccome. Di qui tutta l'ambiguità di Machiavelli: in bilico tra fiducia profonda nella virtù politica, la capacità di analizzare e prevedere gli eventi, anche per preservare il libero arbitrio degli uomini e, dall'altra parte, la fortuna che a volte è fortuito aiuto o, più potentemente e forse anche più spesso, vero tranello per le ambizioni umane. Per la ragione ordinatrice (politica) dell'uomo. Insomma per il principe.
Torniamo dunque all'esperimento mentale di Williams. La scelta di Gauguin è amorale? Per Williams non è questo il modo giusto per inquadrarla. E il Principe è amorale? Anche questo è un modo sbagliato di porre una domanda. La "sorte costitutiva" di cui parla Williams, nel quadro concettuale del Principe è più vicina alla fortuna, al carattere o alla virtù? In realtà partecipa di tutti gli elementi, probabilmente perché tocca il nervo teorico scoperto, la zona grigia, di Machiavelli. Virtù e fortuna sono fortemente intrecciate tra loro, così come lo sono i mezzi e i fini. Per questo è sbagliato dire che il fine giustifica i mezzi, espressione che infatti Machiavelli non ha mai usato. È tutto più sofisticato e complesso: il principe ragiona continuamente su mezzi e fini e se è un buon principe lo fa avendo in mente le virtù proprie della politica.