venerdì 5 dicembre 2014

A Cesare quel che è di Cesare

A Cesare quel che è di Cesare

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Pompeo Marchesi,«Monumento a Cesare Beccaria», Palazzo di Brera, Milano 
 
Pompeo Marchesi,«Monumento a Cesare Beccaria», Palazzo di Brera, Milano
Nel 1765, in una sorta di lungo editoriale della rivista «Il Caffè» intitolato «De' fogli periodici», Cesare Beccaria osservava che «il vero fine di uno scrittore di fogli dev'essere di rendere rispettabile la virtù, di farla amabile, d'inspirare quel patetico entusiasmo per cui pare che gli uomini dimentichino per un momento se stessi per l'altrui felicità». «Ma questo scopo – aggiungeva – dev'essere piuttosto nascosto che palese, coperto dal fine apparente di dilettare, di divertire, come un amico che conversi con voi, non come un maestro che sentenzi». E ciò anche laddove si discorra dei temi che – oltre la moda, la letteratura, l'umorismo, gli apologhi e tutti gli espedienti volti a rendere leggera e gradevole la lettura – egli riteneva fossero decisivi per alimentare la felicità, pubblica e privata: «l'agricoltura, le arti, il commercio, la politica». E poi «la fisica e la storia naturale», miniere inesauribili di idee che devono «fermentare» nella mente di chi legge, e che lo scrittore deve «rendere a chiarezza e precisione, e quasi in sugo ed in sostanza» allo scopo di non annoiare nel rendere pubbliche sia «le cognizioni positive» «utili al maggior numero» sia – non meno importanti – quelle «negative» volte «a distruggere i pregiudizi e le opinioni anticipate, che formano l'imbarazzo, il difficile e, direi quasi, il montuoso e l'erto di ogni scienza».
Dei delitti e delle pene era stato pubblicato un anno prima, nel 1764, ed è un inno a questa idea dei Lumi che lavorano «più a distruggere che ad edificare, e così facendo edificano insensibilmente», consapevoli che «ad ogni verità grande ed interessante, mille errori, e mostruose falsità stanno d'attorno che la inviluppano e la nascondono agli occhi non sagaci».
Sono trascorsi duecentocinquant'anni dalla pubblicazione di quel piccolo formidabile trattato, distruttore di pregiudizi ed edificatore di diritti e di idee innovative che ancora brulicano nelle nostre teste. E in questi due secoli e mezzo Cesare Beccaria è stato esaltato, ma anche trascurato e frainteso, in molte sue linee di pensiero. Come scrisse Luigi Settembrini, Dei delitti e delle pene ha rappresentato più che l'uscita di un libro un momento epocale, segnando «il tempo in cui fu abolita la tortura e le atrocità nei giudizi criminali, e si cominciò a pensare se è proprio necessaria la pena di morte ai colpevoli». Intellettuale illuminista, antesignano negli sviluppi di molte correnti del pensiero moderno, come il contrattualismo, il liberalismo e l'utilitarismo, Beccaria, insieme a Machiavelli il più conosciuto al mondo tra i pensatori italiani, supera con la sua riflessione e produzione teorica i confini tra le varie discipline e certamente sfugge a una definizione univoca. Jeremy Bentham lo considerava tra gli ispiratori più importanti dell'utilitarismo, per la formulazione del celebre principio incentrato sulla «massima felicità per il maggior numero di persone», ma in Beccaria non può essere affatto trascurata l'attenzione per i diritti individuali e il riferimento al contrattualismo alla Rousseau, con echi che giungono oggi fino alle "teorie della giustizia" alla John Rawls, come ricorda il filosofo del diritto Mario Ricciardi nell'ultimo numero della rivista Philosophical Inquiries (www.philinq.it). Ma è anche vero che il calcolo razionale caro agli utilitaristi permette a Beccaria di desacralizzare il diritto scindendo per primo, e una volta per tutte, l'idea (giuridica) di reato dal concetto (etico-religioso) di peccato, e che proprio il suo ragionare da economista gli fornisce la chiave per valorizzare al massimo grado i diritti individuali in un contesto drammatico e ancora oggi delicatissimo come quello del sistema sanzionatorio penale.

Che l'eredità intellettuale di Beccaria non possa essere circoscritta a questo fenomenale piccolo trattato – dove troviamo perfettamente enunciati i principi della certezza del diritto e della pena, del grado di deterrenza dei diversi tipi di punizione, della velocità dei processi come ingrediente fondamentale per una giustizia giusta – lo dimostra la monumentale opera avviata da Luigi Firpo e Gianni Francioni con l'edizione nazionale delle Opere di cui uscirà a breve il terzo volume dedicato agli Scritti economici (Mediobanca). Come sostiene Carlo Scognamiglio Pasini nel suo L'arte della ricchezza (uscito in questi giorni per Mondadori education), Beccaria è stato in realtà «il più profondo e il più originale degli economisti italiani». Scognamiglio abbraccia appieno in questo il giudizio di Schumpeter che definiva Beccaria "l'Adam Smith italiano". In una nota critica del curatore Gianmarco Gaspari agli Scritti economici si legge che Beccaria avrebbe anticipato Smith nella formulazione del concetto di "divisione del lavoro". Scogmamiglio invece ricorda che due furono le idee di Beccaria considerate eversive dai suoi contemporanei: la prima è quella, già menzionata, della distinzione tra crimini e peccati, che spinse la Chiesa a mettere subito all'Indice Dei delitti e delle pene. La seconda è un'idea che si troverà anche nella Ricchezza delle nazioni di Smith (1776) e che «rivoluzionerà il sapere economico aprendo la strada alla moderna economia politica, al sistema dell'economia di mercato, e più tardi anche all'antitesi rappresentata dal socialismo di Marx ed Engels». Espressa chiaramente da Beccaria nelle lezioni che tenne tra il 1769 e il 1771, è l'idea secondo cui la vera fonte della ricchezza delle nazioni non è costituita dalle risorse naturali e dall'agricoltura, ma trae invece origine dal lavoro umano e dagli strumenti che ne incrementano la produttività. La classe sociale cui Beccaria apparteneva – aristocratici e proprietari terrieri – non poteva subire un simile attacco alla rendita, e spinse Beccaria ad abbandonare l'insegnamento e il progetto di pubblicare il proprio testo sull'economia, che uscirà postumo nel 1804, e ad accettare per il resto della sua vita solo compiti operativi e amministrativi. Che è sempre un bel modo per depotenziare le menti più fervide e innovative.